Zen Circus: intervista a Ufo


Terna!
Il giocatore con il tabellone dei numeri estrae il terzo dischetto con le cifre dipinte, e noi copriamo la terza casella di fila.
Infatti dopo i botta e risposta con Mirco Mariani di Saluti da Saturno e Lorenzo Urciullo di Colapesce, è toccato a Ufo degli Zen Circus, per completare il quadro del Lungomare Festival. Evento oganizzato da Retro Pop in collaborazione con Queens, (Qualcosina)², Party’n Stazione, Monogawa Back to Gawa che si terrà al Barrumba di Pinarella di Cervia (RA) il prossimo 24 aprile.

Una conversazione singolare, a tratti schizofrenica.
L’importante è stare al gioco.

 

Aprendo il vostro sito appare un comunicato ufficiale in cui dichiarate che questo è un periodo molto importante per la vostra carriera, dichiarazione seguita dall’annuncio del busking tour.
La considerazione sull’importanza del periodo che state attraversando, e la successiva decisione,  pare suggerire che vi siate fermati un attimo per fare una sorta di bilancio. È così?

Fermarci no. La spinta propulsiva c’è sempre. La vita del tour è la nostra seconda natura: è il nostro momento fondante.
Più che altro abbiamo pensato alle tantissime persone che sono venute a conoscere gli Zen negli ultimi tempi, in particolare i più giovani, che non hanno potuto vedere come si muovesse il gruppo agli esordi. Quindi abbiamo ritenuto che fare uno show più scarno, con meno cambi di strumenti, più rispondente a come ci muovevamo all’inizio, potesse essere utile.
Non per fare un’operazione nostalgica, ma per mantenere la nostra spinta naturale. Non abbandoniamo l’attitudine del tour perenne, ma apriamo questa finestra, che dura un paio di mesi, in cui proponiamo uno spettacolo diverso.

La prima parte del tour è andata benissimo, con numerosi sold out. Un gruppo italiano standard a questo punto farebbe locali ancora più grandi, alzando il costo dei biglietti: cosa fatta e rifatta negli anni ’90 da tantissimi gruppi.
Invece l’idea nostra è quella di intraprendere un percorso in controtendenza, rispolverando il nostro set minimale.

 

Mi hai in parte rivelato l’esigenza da cui nasce il ritorno a un assetto semplice come quello “busker”, da strada.

Io penso che le persone abbiano piacere di vedere le cose semplici.
Tantissimi gruppi stanno fondando la loro carriera su un concetto identitario: le persone hanno piacere di vedere che le cose si costruiscono davanti ai loro occhi, senza che vengano paracadutate.
Poi c’è e sempre ci sarà il grande pubblico che si fa prendere dalla cosa telecomandata dall’alto.
Però quello che in queste settimane si è rivelato davvero funzionale è il “meccano” di rock, che funziona.

 

Questo mese su Dissonanze stiamo affrontando il tema dell’Europa, cercando di sviscerarlo tramite vari ambiti di interesse. Parlando di musica, ci chiedevamo quale fosse lo stato delle cose in Italia, se ci fossero spinte “esterofile”, ad ampio respiro.
Al contrario, partendo dalla vostra esperienza, confermeresti la tesi secondo la quale in Italia cantare in italiano paga?

Il discorso è più intricato.
Una via italiana al rock secondo me non c’è.
Il rock italiano è stata una bufala inventata di sana pianta negli anni ’90 per far mangiare i Subsonica e qualche altra band. Non esiste il rock italiano. C’è il rock, poi ci sono altri generi.
C’è il rock in italiano che è tutt’altra cosa, e presenta svariate ramificazioni ed espressioni più o meno interessanti.
Io penso che questo sia un periodo molto florido per la musica in Italia, ma anche molto autoreferenziale, perché bisognerebbe rompere l’ultimo diaframma che ci separa dalla capacità di esportare.
C’è un mercato molto posizionista in questo senso.

Io sto ascoltando tanti gruppi agli esordi, e c’è un output qualitativo enorme, anche in inglese, e avrebbero tutti i requisiti per giocarsela ad armi pari col resto d’Europa.
La fregatura è che c’è un sistema di spartizione, come ci fu la spartizione di Jalta alla fine della seconda guerra mondiale, che determina zone di influenza tra etichette, per cui per esempio la EMI dice “Noi in Italia ci occupiamo di Vasco, questo, quell’altro, buonanotte e arrivederci, accontentatevi: il resto ve lo mandiamo noi”.
Funziona così. Per quel che riguarda l’import, ci pensano le etichette da fuori. Per quel che riguarda l’esport, ancora non si sa.
E tutt’ora deve essere rotto quest’ultimo diaframma.
C’è chi prova ad aggirare questo ostacolo, tagliando il concetto “italiano-non italiano”, e si è fatto strada. Gli Zu, per esempio: d’accordo, fanno strumentale, ma sono portati in palmo di mano nel mondo, fanno dischi con Mike Patton e con chi desiderano.
I musicisti italiani sono eccelsi, secondo me.
E godono di una longevità maggiore dei loro omologhi anglosassoni. Un gruppo di ventenni inglese può essere tanto bello, ma al secondo album è già finito. Mentre i gruppi italiani possono dare tanto e a lungo.
Ora, siccome un certo pubblico c’è, e una certa sensibilità c’è, bisogna vedere se si riesce di qui in avanti a rompere quest’ultimo diaframma.
Perché i Sigur Ros sono andati bene? Si esprimono in una lingua neppure esistente! Quindi c’è per forza una maniera… un giorno ci saranno dei Sigur Ros anche in Italia? Io spero proprio questo!

Poi in questo momento storico, di crisi sociale, parlando di cose nostre ci siamo espressi con la lingua nostra, per avere un rapporto paritario col pubblico. E magari è ora che anche il pubblico abbia più curiosità e voglia di capire altri idiomi. Noi nei primi anni della nostra carriera abbiamo fatto canzoni in inglese, in francese, in lingue finte.
Vedremo come andrà, ma la situazione in Italia è ottima. Io ho fiducia, perché ci sono band davvero ottime.

 

A ottobre intervistai Bugo, nel periodo in cui era da poco uscito sia il suo disco, “Nuovi Rimedi per la Miopia”, che il vostro, “Nati per Subire”.
Nel corso dell’intervista Bugo citò proprio il vostro ultimo lavoro,
dicendo che è importante e doveroso da parte di chi fa musica porre all’attenzione dell’ascoltatore ciò che non va, ciò che si ritiene sbagliato. Però lui riteneva altrettanto importante fare un passo ulteriore, e cercare di capire prima di tutto cosa non vada in noi stessi, per poter reagire e cambiare ciò che di sbagliato c’è all’esterno. Offriva così una sorta di soluzione, e citava il vostro disco perché rimane più descrittivo di ciò che non va, senza fare il passo in avanti.
Ora, a distanza, come gli risponderesti?

Siamo amici di Bugo da tanto tempo, e quello che dice è giusto.
Lui ha proprio inventato delle cose. Potrebbero non essere tutte sue, in parte è stato ispirato da figure di riferimento straniere, ma lui ha sempre fatto cose nel suo stile, con un’identità tale che ora alcuni artisti vengono paragonati a lui. Per esempio, un nostro pezzo contenuto nell’ultimo disco, “La democrazia semplicemente non funziona“, che abbiamo montato all’ultimo e non avremmo neppure dovuto inserire nel disco, riascoltato durante le registrazioni ci siamo accorti contenesse vari richiami a Bugo. Quindi, seppur inconsapevolmente, è un riferimento importante.
Poi lui ha avuto un percorso personale, e l’ultimo album è misticheggiante, introspettivo.
La sua angolazione la vedo giusta. La nostra ha una sfumatura diversa, perché io non me la sento di indicare cosa non va e come uscirne.  Già noi tre (Ufo: basso; Appino: chitarra e voce; Karim: batteria, ndr) la pensiamo tutti in modo diverso, poi siamo uniti da una tendenza anarchista che ci fa disdegnare i discorsi di chi dice “Ora te lo dico io cosa puoi fare”.
A noi piace spiattellarti le cose davanti, col pessimo gusto tipico dei toscani.
In “Andate Tutti Affanculo” vedevamo le cose più da lontano, in “Nati per Subire” le guardiamo più da vicino. Ma ci fermiamo lì.
Poi Bugo ha fatto un percorso più interiore, quindi ha una visione più risolutiva. Noi la vediamo così. L’importante è dirle le cose. A noi piace sollevare dubbi, poi le risposte non è importante che ci siano. Già è tanto il dubbio.

Anche se mi rendo conto che sia dura: ci sarebbe da fare un bagno di sangue.
Parliamo di un problema grande: i punti SNAI. Bisognerebbe prendere e distruggerli fisicamente .
La gente si accontenta, spera di risolvere così i problemi. Invece bisognerebbe dare fuoco a questi posti. Ma non posso dirlo nelle canzoni: le persone devono capire.
Un po’ è anche colpa dei poveri, altrimenti il disco non l’avremmo chiamato “Nati per Subire”. Perché i poveri un po’ di responsabilità ce l’hanno.

 

Da questo punto di vista, penso sia importante l’educazione dei più piccoli, per renderli un giorno adulti con capacità di discernimento. Anche se mi rendo conto sia una visione un po’ utopistica, perché il rischio è di non vedere mai realizzato nel corso della propria vita il frutto di ciò che si è seminato.

L’educazione viene prima di tutto. Se si riuscisse a non far ripetere i propri sbagli sarebbe fantastico.
Però sono estremamente scettico, e qui ci trovi tutti e tre d’accordo, perché non mi sembra che ci sia grande interesse a migliorare. Mi pare che il mondo resiste con estrema violenza al tentativo di migliorarlo: vedi Gesù.
È questione di volontà.
Le persone fanno le stesse cose che hanno visto fare, solo che nel tempo il contesto è cambiato.
L’educazione è comunque fondante. Forse bisognerebbe tenere i bimbi un po’ più scalzi, o allevarli tutti insieme, collettivamente. Potrebbe essere interessante. Hanno fatto prove sporadiche negli anni ’70 poi è finita lì.

Probabilmente siamo un po’ paralizzati. Bisognerebbe avere un po’ più di coraggio, meno paura di morir di fame e più paura di morir inculati. Così cambierebbero molte cose.

 

“Nati per subire” ha visto la partecipazione di numerosi ospiti. Come sono nate queste collaborazioni? Ti chiedo anche di calare il discorso all’interno dell’ambito Tempesta Dischi, perché mi interessa capire che ruolo abbia avuto nel creare queste belle occasioni di collaborazione.

Le collaborazioni sono frutto di tutti questi anni di vita; musicisti che ci siamo trovati affianco da epoca immemorabile. Con Gabrielli e Alessandro Fiori avevamo fatto date insieme già nel 2001, ai tempi dei Mariposa.
Alcuni di loro sono quindi compagni di una vita. Altri sono talismani. Per esempio con Giorgio Canali ci stiamo cordialmente sulle palle: è lo zio bastardo.
Sono anni che siamo sempre in giro a suonare, quindi questi musicisti sono un po’ diventati nostri amici, parte del nostro vivere. Perché gli amici di casa li vediamo sempre meno.

È finita l’epoca di concorrenza tra gruppi, tipica degli anni ’90. Io l’ho vista in prima persona.
Adesso c’è un clima più collaborativo, anche tra artisti lontanissimi. Per esempio noi con Dente. Ci rivolgiamo a un pubblico analogo, ma siamo su due registri completamente diversi, eppure c’è grande sintonia.

La Tempesta è uno degli aspetti di questo.
Anche se noi non ci siamo sotto, perché nessuno di noi ha firmato un contratto: è tutto sulla fiducia, sulla parola, sull’amicizia.
Siamo confluiti tutti lì per motivi svariati. Alcuni di questi artisti li conoscevamo da prima, altri li abbiamo conosciuti lì.
E c’è sinergia. Si tratta di una cosa che non riguarda solo La Tempesta, ma un po’ tutta la realtà italiana che sta su con le sue gambe. Sono tutte paragonabili a famiglie vaste e affiatate.
È bello aver dimostrato in questi Anni Zero che ci sono altre cose che possono funzionare, senza grandi impegni, clausole, avvocati.
La gente in questo tipo di attitudine si identifica e si trova bene.

Ci sarebbero tantissimi altri esempi. I Verdena non li vedo diversi da altri colleghi: l’atteggiamento è quello.
Una visione ad ampio respiro, che è molto bella secondo me.

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  1. Intervista a Bugo

    […] riproposto un altro disco come “Contatti”, mi sarei sentito totalmente ridicolo. Ad esempio gli Zen Circus – che a me piacciono molto – sono stati bravissimi nella loro analisi con il loro nuovo disco […]

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