Vedere noi stessi tra gli altri: a scuola di intercultura


Febbraio e Aprile 2011: Silvio Berlusconi attacca gli insegnanti della scuola pubblica, rei presunti di inculcare negli alunni «principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli». L’ex premier fa suo un mantra caro ai conservatori: la purezza e l’intrinseca bontà della cellula famigliare tradizionale, costretta a difendersi dagli attacchi di un mondo esterno immerso nel degrado. Data questa premessa, l’alunno rimane innanzitutto un figlio, qualcuno che deve cioè vivere dentro il caldo ma buio ventre materno anche quando esce, va a scuola e diventa alunno. La sua tensione a esperire il mondo va bene finché rimane confinata in casa: per questo si insiste sul necessario parallelismo tra scuola e famiglia (tradizionale) in termini di valori e di insegnamenti trasmessi.

Gli risponderà seccamente Umberto Galimberti dagli studi di Corrado Augias: «lui vuole soggetti handicappati». Secondo lo psicologo la cosa è controproducente: chiudersi in casa blocca la curiosità dei ragazzi, che hanno invece bisogno di esplorare esempi nuovi, contrastanti, per trovare equilibrio personale e per sviluppare una propria capacità decisionale. Fuori, perché il mondo è fuori ed è diverso dal focolare domestico.

Soprattutto, aggiunge, i ragazzi devono imparare a vivere «in un contesto come sarà quello europeo, un contesto multiculturale».

Galimberti ci riempie di compiti: imparare che il mondo là fuori è diverso da quello casalingo, che è ormai multiculturale e che bisogna imparare a viverci. Difficile, anche per chi a scuola ha una media alta.

Ma vivere è la materia più importante e tocca imparare. Dove? A scuola, certo: servirà allora una scuola dove si impari a vivere il mondo multiculturale. In aiuto alle strutture di base può venire, quasi fosse una scuola serale per preparare bene compiti così difficili, il centro interculturale.

Il centro interculturale, lo dice il nome, è una struttura centripeta: funzione già di per sé importante per le moderne città diffuse, ovvero decentrate, frammentate e disorientate. È però un centro politecnico, dove si fa un po’ di tutto: scrittura, teatro, musica, danza, dibattiti, lingue. Perché vengano più persone possibile, a seconda dei propri interessi. Con un intento chiaro: esprimere (mediante immagini, brani, balli, parole) pezzi del proprio essere e scambiarli, discuterli, ricostruendoli e ricostruendosi assieme. Per imparare, attraverso le cose che piacciono o che servono, che la paura del diverso è una chimera e che l’unione è fonte di arricchimento.

Molti sono gli esempi felici, in Italia come in Europa, di questa pratica scolastica che solo in Italia è giunta al XIV convegno nazionale. Felici perché raggiungono importanti obiettivi in termini di recupero e mantenimento del tessuto cittadino, di integrazione, di servizi e di formazione della cittadinanza italiana e straniera. Questo nonostante siano spesso poco considerati da uno Stato che, almeno a guardare le sue leggi, va nel senso opposto: la Bossi-Fini e la legge 92/2008 siano da esempio.

Il centro interculturale Zonarelli di Bologna è uno di questi esempi: gestito dal Comune, raggruppa 128 associazioni delle quali però solo il 49% si definisce etnico-identitaria. Una prova della vocazione del centro che, come spiegato nel sito web, non vuole essere una mappa passiva della multiculturalità bolognese, bensì portare avanti «uno specifico progetto di interazione entro le società multiculturali» che assuma caratteri di «mediazione [..] animatrice di un continuo e produttivo confronto».

Centro però non vuol dire indottrinamento a senso unico: nulla di inculcato insomma. «È un luogo che si offre come base logistica per le nuove realtà associative bolognesi, soprattutto le realtà più giovani, [..] può garantire una sede nella fase di avvio dell’associazione, consulenza giuridica e amministrativa riguardo l’associazionismo, recapito postale, supporto informativo, consulenza sulla comunicazione, ecc». L’idea è attrarre le persone e le associazioni verso il centro offrendo una base per portarle a inter-agire.

È questo il punto. Non basta accettare il mondo multiculturale citato da Galimberti. Il compito diventa educare la multicultura all’intercultura, per trasformare una convivenza spesso difficile ma necessaria in opportunità di interazione proficua. In quest’ottica, il centro interculturale è da incentivare, anche come aiuto per una scuola tradizionale che fatica ancora ad accettare l’evolversi della demografia italiana: si pensi al recente dibattito sulle cosiddette classi miste. Dall’anno 2003/04, il centro Zonarelli è nelle scuole per fare intercultura.

«Vedere noi stessi come ci vedono gli altri», scrive Clifford Geertz, «può essere rivelatore. Vedere che gli altri condividono con noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è dalla conquista assai più difficile di vedere noi stessi tra gli altri, un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione».

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