Kokoro: l’essenza non si insegna


«Ma quell’estate, la mia malinconia tendeva a trasformarsi con il trasformarsi del frinire delle cicale, come se il destino che mi avvolgeva si muovesse per gradi dentro un immenso ciclo di diverse esistenze».

 

La voce che percorre gran parte del romanzo di Natsume Sōseki è quella di un giovane studente di Tōkyō, che costruisce il suo percorso di vita seguendo i consigli del “maestro”, un attempato signore conosciuto per caso nella località turistica di Kamakura.
I due iniziano a vedersi sempre più spesso, finché non nasce una vera e propria amicizia.

La storia è ambientata nel 1912, anno che vede la dipartita dell’imperatore Meiji, cui segue quella del generale Nogi, il quale aveva partecipato al conflitto russo-giapponese e che, in un atto di junshi, sceglie di essere fedele al suo signore anche nella morte.

È un periodo di forte mutamento, in cui l’identità individuale si riflette nell’architettura di una metropoli in continuo sviluppo, dove le comodità sono facilmente raggiungibili, ma le esistenze si toccano appena, disorientate da un nuovo modo d’intendere lo spazio e le relazioni.

Nel romanzo nessun personaggio ha un nome proprio, quasi a sottolineare la perdita d’identità e un senso di vuoto, che coglie soprattutto la vecchia generazione ormai priva di punti di riferimento, ora che anche il “Figlio del Cielo” è morto.

Ad avvicinare i due protagonisti, nonostante le differenze d’età e di mentalità, è la solitudine.
Si tratta di due solitudini diverse: da un lato, quella del maestro, che ha scelto di isolarsi dopo essere stato defraudato da un membro della sua famiglia e aver perso la fiducia nei rapporti umani; dall’altro, un ragazzo che non ha molti amici e non ha ancora conosciuto l’amore.

Il maestro non è un insegnante –viene chiamato così in segno di rispetto- né ha un’occupazione fissa, ma, essendo benestante, può permettersi di trascorrere il tempo a casa con la moglie o facendo lunghe passeggiate insieme al giovane, mentre una volta al mese si reca al cimitero di Zoshigaya per visitare la tomba di un vecchio amico.

Lo studente non nasconde fin da subito una critica piuttosto aspra verso tutto ciò che è antico e basato su valori per lui anacronistici,per questo considerati ridicoli.
La dicotomia tra vecchio e nuovo si accentua ogniqualvolta egli venga a contatto con gli usi e i costumi dei suoi genitori, che vivono in provincia, si attengono alle tradizioni popolari di una “campagna permalosa” e non comprendono perché il figlio stimi tanto un signore che nemmeno svolge un lavoro.
L’adolescente si ritrova ben presto a fare un confronto tra la vita del padre e quella del maestro. A far vacillare il rapporto padre-figlio non è l’appartenenza a una diversa generazione, bensì la mancanza d’apertura mentale da parte del genitore, che si cura unicamente del futuro lavorativo del figlio.
Il maestro, nonostante si limiti ad ascoltare il suo nuovo amico, riesce, invece, a immedesimarsi nella sua situazione e, avendo già vissuto determinate esperienze, tenta di districare gli inevitabili nodi di alcune questioni che tormentano il ragazzo. Tuttavia, sente di non poter assumere il ruolo di mentore per via di un irrimediabile errore commesso molto tempo prima e che verrà svelato solo nella parte conclusiva del romanzo, in cui è contenuto il suo testamento morale.

Ad offrire uno spunto didattico è, quindi, il frutto marcio dell’esistenza: il rimorso.
Senza gli errori commessi durante un’intera vita, il maestro non avrebbe nulla da insegnare al giovane che ha conosciuto.

Nell’opera vi sono punti in cui la confusione generata nel ragazzo dalle risposte asciutte del maestro si fonde con quella provata dal lettore, che percepisce sempre di più l’oscurità che si cela dietro certe parole e resta col fiato sospeso fino alla fine.
L’infelicità che accompagna da sempre il maestro è dovuta a un episodio della sua giovinezza, in seguito al quale era avvenuta la morte dell’amico K.. Egli, infatti, pur essendo a conoscenza dell’amore che K. nutriva per la figlia della pensionante presso la quale vivevano entrambi, chiese la mano della signorina. Dopo aver appreso la notizia, K., credendo di non avere più una valida ragione per vivere, decide di suicidarsi. Il maestro non perdonerà mai a se stesso la condotta tenuta in quell’occasione e, ad ogni manifestazione di stima da parte della moglie -ignara della ragione del conflitto interiore del marito-, proverà un acuto senso di colpa, sapendo di aver negato, sposandola, la felicità di K., che per primo aveva rivelato di esserne innamorato.

Nonostante al centro della narrazione vi sia l’amarezza di una vita trascorsa a rimuginare sui propri rimpianti, viene sottolineata l’importanza delle idee e delle parole, legate inscindibilmente al vissuto di ogni persona: «Non confondi forse le mie idee con il mio passato? Non sono un grande pensatore, ma non nascondo indiscriminatamente a tutti le idee che ho in testa, visto che non è necessario nasconderle. Ma se devo raccontare a te tutto il mio passato, il problema è diverso».
«Non penso che sia diverso. Considero le sue idee perché sono nate dal suo passato. Secondo me, le due cose separate non hanno più valore. Non possono soddisfarmi le bambole prive di anima». 1

 

1: Natsume Sōseki, Il cuore delle cose, 2006, Neri Pozza Editore, Vicenza (pg 99)

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