Bud Spencer Blues Explosion – L’intervista


«Caspita, ci potevo pensare io!»
Questo disse tra sé e sé Adriano Viterbini la prima volta che vide suonare un fortissimo duo chitarra e batteria, che faceva “un genere un po’ blues”, a New York nel 2004.
Erano i Black Keys.
Appena tornato a casa, telefonò a Cesare Petulicchio e gli chiese: «Ti piacerebbe fare un gruppo così?»
La risposta fu affermativa, e nacque quel progetto che poco tempo dopo prese il nome di Bud Spencer Blues Explosion. Adriano alla chitarra, Cesare alla batteria.
Per il duo romano cominciò così un periodo di intensa attività dal vivo tra i club della capitale che li portò ad accumulare esperienza e a costruire un sound sempre più distante dal modello che aveva dato loro l’impronta.

Con un sostanziale spirito di divertimento, partì e prosegue tutt’ora l’avventura dei Bud Spencer Blues Explosion, che con il loro nuovo lavoro, Do It, stanno tornando a calcare i palchi di tutta Italia (e non solo).
Il 23 dicembre suoneranno al Georg Best Club di Montereale di Cesena per la serata prenatalizia, aperti da Hugo, chitarrista dei Tocsins, che per l’occasione abbandona le vesti (o meglio, le camicie) da indie-rocker per vestire quelle di bluesman solitario.
In attesa di rivederli in quello che si preannuncia un concerto bollente, abbiamo scambiato qualche battuta con Adriano, voce e chitarra della band.

Come state? Come sta andando il tour?

Stiamo bene e il tour per fortuna procede alla grande. Il nuovo disco ci dà tanto entusiasmo e ci permette di fare una scaletta diversa rispetto a quella che abbiamo suonato gli anni scorsi.
Questa componente di novità è come una spezia che arricchisce tutto, secondo noi.
I brani nuovi registrati per il disco, di cui andiamo molto orgogliosi, dal vivo si affiancano alla consueta improvvisazione, e questo mix ha cambiato anche un po’ l’approccio che abbiamo sul palco.

 

La novità è sempre molto adrenalinica.

Sì! Quando si esce con un lavoro nuovo, il ritorno di energia della gente e della critica riesce davvero a rincuorare. Cosa per nulla scontata.
Infatti quando facciamo un disco, creiamo qualcosa che ci piace, ma non diamo per scontato che piaccia anche agli altri . Quando ci si accorge che il feedback c’è e arriva tanta energia positiva di ritorno, si sale sul palco con un atteggiamento entusiasta.

 

La prima volta che vi ho visti dal vivo fu nel gennaio 2010, in un concerto organizzato dai ragazzi del Retro Pop, come sarà anche quello del 23 dicembre al Georg Best.
In quel periodo eravate la rivelazione dell’anno, la band del momento. Col nuovo lavoro avete sentito di dovervi riconfermare e migliorare, oppure non avvertite questo peso?

Credo che l’effetto novità sia un beneficio di tutte le band che si affacciano a un panorama musicale. Al di là di questo c’è l’obbligo per chi fa dischi, chi fa musica, di doversi migliorare volta per volta. Io per esempio sono abbastanza fissato per cercare di evolvere nel sound e fare cose che mi gratifichino sempre di più.
Devo dire che quest’ultimo disco è molto più maturo del precedente. Spero che il prossimo sia ancora meglio! Io non vedo l’ora di cominciare a gettare le basi per un nuovo lavoro e cercare di farlo al meglio.
Tutto quanto è sempre volto a migliorarsi, sicuramente.

 

Il titolo del nuovo lavoro è Do It, imperativo inglese che sta per “Fallo”. Però il titolo si può anche leggere come acronimo di Dio Odia I Tristi: D.O.I.T. appunto. È nato prima il titolo in inglese, o la scelta della frase italiana?

È nato prima Dio Odia I Tristi, perché ho letto una volta questa frase su un libro di cui non ricordo il titolo, e mi piacque come pensiero. Poi mi sono accorto che prendendo le iniziali di ogni parola si otteneva “Do It”, e alla fine i due concetti mi piacevano nel disco, perché ci rappresentano.

Uno è l’immediatezza con cui noi vogliamo porci nella vita, senza stare troppo ad aspettare. In Italia c’è un po’ la tendenza a perdere tempo, e questa cosa non ci rappresenta.
Poi l’idea di “Dio odia i tristi” mi piaceva perché io credo che per fare musica – o almeno, nel modo in cui la faccio io è così – per stare bene, bisogna avere un atteggiamento positivo. Non solo: mi piace la musica solare. Infatti anche nei miei ascolti, quando sento accordi minori, tendo ad allontanarmi. Ho bisogno sempre di molta allegria dalla musica.
E mi piaceva distruggere lo stereotipo del bluesman triste e solitario che fa patti col diavolo. Si tratta di leggende molto affascinanti, ma io che sto a Roma nel traffico del Lungotevere non mi sento rappresentato.

Io non vedo l’ora che esca fuori il sole!

 

Cosa vi siete portati a casa dalla vostra esperienza di concerti negli Stati Uniti del 2009?

La voglia di tornarci! Infatti andremo a suonare a Memphis tra poco, a fine gennaio.

Suonare in America ci diede una grande grinta, soprattutto grazie al confronto con la realtà musicale d’oltreoceano. Negli Stati Uniti c’è un approccio diverso alla musica. In Italia il musicista è sempre visto come quello che potrebbe avere anche un altro lavoro. In America invece anche i ragazzini che suonano prendono la musica in modo molto serio. Io vedevo i giovani gruppi punk hardcore – ragazzi di 20 anni – che ci credevano a livelli importanti, già organizzati con merchandising, ufficio stampa, manager, e avevano idee molto chiare su ciò che volevano fare.

L’approccio alla musica come mestiere è visto in modo diverso in Italia. Nella nostra cultura non abbiamo determinati parametri.
Magari i miei figli saranno un po’ più fortunati.

 

In America avete portato i vostri pezzi, in italiano?

Abbiamo suonato diverse volte pezzi in italiano, ma abbiamo anche un po’ di cover o di testi in inglese. Ma non troppo elaborati, perché io non parlo bene l’inglese. Cerco sempre di usarlo in maniera molto parca.

 

È anche per questo che i vostri testi sono in italiano? Ci sono band italiane che per questioni tecniche, di gusto, o di adattamento al genere e ai modelli, prediligono la lingua inglese.

Da principio i riferimenti erano gruppi come Verdena e Afterhours, che cantavano in italiano in modo molto affascinante, per cui abbiamo pensato anche noi all’italiano.
Fare una cosa in inglese, considerando anche che io non lo parlo bene, ci avrebbe un po’ annoiato. Inoltre volevamo un insieme di canzoni che fossero comprensibili immediatamente, dal pubblico italiano.
Poi la musica per fortuna non ha questi grandi limiti. Noi facciamo blues: quando si assiste a un live, i testi a volte neppure si sentono.

Va riconosciuto che la lingua inglese ha un suono più aerodinamico, più bello, più facile. In italiano per scrivere testi che suonino bene, a volte si deve sacrificare qualcosa. Io infatti stimo tanto i Verdena, che hanno fatto della lingua italiana un vero e proprio strumento.

Per noi, il veicolo di espressione è la musica. Però la forma canzone – musica e parole – è un traguardo che ci piace raggiungere, perché alla fine noi non ascoltiamo solamente musica dal punto di vista strumentale, quindi ci piace l’idea della forza di un brano.

È proprio un lavoro che ci piace svolgere quello del confezionamento di una canzone. È come fare un quadro.
Se facessimo solo brani strumentali probabilmente ad oggi non saremmo felici.

Magari più avanti potremmo farlo un disco strumentale, però dal vivo ci piace pure cantarcela.

 

Un ringraziamento monumentale a Francesco Lippolis per il supporto tecnico.
E anche ai Black Keys – che i Bud Spencer Blues Explosion non torneranno a vedere nella data milanese di fine gennaio – che non guasta. Mai.

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