Mia figlia, un pacco Amazon – Ricci afro a domicilio


Una bambina dentro uno scatolone che si chiede se può essere identificata come un pacco Amazon

Pacco Amazon (Credits: Carola Astuni)

 

Festa di Natale, due anni fa. Dialogo realmente accaduto, fra i miei genitori e una conoscente:

                        “Certo che le persone di questo quartiere si sposano sempre fra di loro!”
                       “Mah. Veramente nostro genero è del Mozambico…”
                       “Aaaah! Ma quindi… SIETE VOI!”

Quando lo raccontiamo, ci viene automaticamente da sorridere.
Quanto è strana e curiosa, oggi, una coppia mista? Nella mia zona, a quanto pare, ancora parecchio…

Sono nata e cresciuta a Genova, quartiere di Castelletto.
Lui nato a Marromeu e cresciuto a Beira, seconda città del Mozambico.
Queste coordinate geografiche si sono trovate sulla stessa strada, per puro caso, a una festa: lui a suonare, io con una birra in mano.

Dopo sette mesi, i suoi rasta si sono intrecciati alle mie mani in una promessa di matrimonio.
20 giorni dopo, a Berlino, test di gravidanza positivo. Ultimo giorno di un viaggio on the road fra Olanda e Germania, il primo di una meravigliosa avventura.

Quando si realizza che si diventerà genitori, nessuno ha idea di come sarà realmente.

Emozionante? Spaventoso? Dormirò? E se non mangerà, cosa faremo?

 

La nostra giovane relazione era già di per sé una bella scommessa, ma quando abbiamo scoperto che saremmo diventati genitori così presto, le differenze culturali avrebbero potuto letteralmente stravolgerci.

Progettavamo comunque di avere bambini, anzi, prima di decidere di sposarci c’eravamo fatti la necessaria domanda “E se non potessimo averne?”

Non esistono formule magiche per un matrimonio felice, nemmeno per essere bravi genitori: è una strada in perenne cambiamento, ma la sola cosa che davvero serve è parlare.

In una coppia come la nostra, a maggior ragione, dobbiamo parlare il doppio perché non bisogna mai dare nulla per scontato.

 

Certo, non ho scoperto l’acqua calda, è chiaro che valga lo stesso discorso per qualsiasi relazione!

Ma le statistiche, purtroppo, non sono a favore delle coppie miste (su 10, infatti, 8 falliscono). Diversi studi hanno evidenziato come questi matrimoni non siano particolarmente longevi. Ciò dipende da vari fattori che tendono a influenzare negativamente l’andamento del rapporto: dalle pressioni delle famiglie di origine, alle differenze a volte inconciliabili nell’educazione dei figli, religione, ambiente non accogliente.

Chi, invece, sceglie di vivere con una persona cresciuta nel medesimo ambiente, si scontrerà con altre difficoltà, che non siano quelle di un credo, di usi e costumi, di riti diversi.

Sia io che mio marito abbiamo la fortuna di lavorare (Jo) e di aver lavorato (io) come mediatori culturali, ma anche, soprattutto, di lavorare entrambi nel settore dell’educazione.
Si tratta di una combinazione che torna a nostro vantaggio, considerato il fatto che conosciamo sulla nostra pelle i rischi di una comunicazione inadeguata fra due culture diverse: i figli rischiano di mettere ulteriormente in discussione i propri retaggi, aumentando un eventuale distacco.

Prima ancora di decidere di sposarci, è capitata una classica discussione culturale: i buchi alle orecchie sulle neonate.

Sembra una cosa banale, ma posso assicurare che non sia affatto così.

 

Io ero (e la sono tuttora) del team #NoCategorico, mentre Jo supporta la causa: nella sua cultura è un tratto distintivo e a tutte le bambine, appena nate, vengono messi i primi orecchini. Non è un vezzo, ma un vero e proprio rito di passaggio.

Non giudico assolutamente chi decide di farlo sulle proprie figlie: sono scelte personali. Ma io, su mia figlia, non avrei mai potuto pensare di farlo.

Così è scaturita, come ovvio, una lunga discussione… Un dramma quando abbiamo scoperto di aspettare una femmina e che avremmo dovuto decidere come affrontare questo primo contrasto!

Come è andata a finire? Deciderà lei quando farseli (io ho posto il veto prima dei dieci anni…). Comunque, per ora, niente orecchini. Arrivare a questa conclusione non è stato semplice, ma ha aiutato il fatto che non abbiamo subito ingerenze o pressioni dalle nostre rispettive famiglie: ripeto, non è una cosa scontata.

Insomma, crescere figli nati in un matrimonio misto non è cosa semplicissima.

Le situazioni interne alla coppia rischiano di mettere in luce fragilità importanti, ma anche l’ambiente circostante può rivelarsi – non in tutti i casi, chiaramente – un fattore di instabilità.

Tuttavia, una cosa che effettivamente mi ha stupita di più nel diventare madre è stata la curiosità che scaturisce nelle persone alla vista di una bambina con capelli afro e pelle olivastra.
Qualche giorno fa, tanto per cambiare, mi sono sentita chiedere quali fossero le origini di mia figlia.

“Mio marito è mozambicano, signora”

 

La mia risposta standard, collaudata in due anni da mamma (ad eccezione della volta in cui una passante mi chiese “Di che razza è la bambina?” e risposi “Chihuahua”).

Le reazioni sono svariate. C’è chi si stupisce, chi si sente in imbarazzo, chi persiste e sottolinea “Ah, ecco, pensavo che fosse adottata!”

Ma, anche se fosse, cara la mia signora della fermata dell’autobus, della coda alle poste, della sala d’attesa del medico, a Lei, cosa potrebbe veramente importare?

Sarebbe differente se le dicessi che mia figlia è nata in Italia da genitori africani, o che abbia vissuto in Libia prima di attraversare il Mediterraneo su un barcone, oppure che sia mia figlia biologica?

(E anche qualora mia figlia fosse adottata, potrebbe non avere il desiderio di ripercorrere delle tappe del suo passato di fronte a una totale sconosciuta).

In ogni caso, posso assicurare, non ci sarebbe alcuna differenza per me.

 

E per Lei?

Questa volta, devo ammettere, ho accusato un po’ il colpo. Mi sono scoraggiata nel constatare come molte persone non percepiscano che questo genere di domande porti con sé un peso emotivo. Mia figlia comincia a capire, mi chiedo cosa significheranno per lei tali quesiti.

La cosa bizzarra è che a mio marito, quando gira da solo con nostra figlia, non capita mai che gli chiedano se è adottata.

  • Papà, mamma, figlia: sguardi incuriositi, alcuni inteneriti, altri (pochi, per fortuna) molto giudicanti.
  • Papà e figlia: “Ma che bella sua figlia!”
  • Mamma e figlia: “Oh, ma che bella bambina. Da dove arriva?”

Insomma, per la maggior parte delle persone è normale che un uomo africano abbia una figlia con una donna italiana. Chissà come mai, ma quando la stessa donna italiana (con cui l’africano di cui sopra dovrebbe avere un figlio) gira per strada con la prole, non è automatico che abbia un partner che non sia biondo con occhi azzurri (e lentiggini).

Sorge spontanea una riflessione: per quale motivo si è pronti a chiedere a un totale sconosciuto di parlare di dettagli così delicati dei propri figli?

 

Una mamma e sua figlia, afroitaliana, passeggiano. Una signora chiede di che razza sia la bambina.

Di che razza è? (Credits: Carola Astuni)

 

Spesso capita che siano quesiti che nascano ingenuamente, senza malizia, senza pensarci troppo: penso una cosa e mi esprimo di conseguenza, automaticamente.
Quando vedo l’espressione di chi ha compreso di aver posto una domanda fuori luogo, sorrido e passo oltre.
Ma non sempre è così.

 

Al bar, sabato mattina.

 

Cioccolata calda con le amiche. Passa una signora a fianco a noi:

“Oh, ma che meraviglia questa bambina. Ha dei capelli bellissimi. Sa, anche io volevo prenderne una così”

Non vorrei essere pignola, ma essendo un’insegnante particolarmente amante della lingua italiana, desidero soffermarmi sulla frase prenderne una così.

Estrapolata dal contesto mi fa pensare a una cassa di frutta, a una collana alla fiera dell’usato o alla bambola di Pippi Calzelunghe che desiderava mia figlia per Natale.

(E che le ho realizzato, come sa chi ha letto questo articolo, ma è un’altra storia)

  • “Non abbiamo più mandarini: riesci ad andare al mercato a prenderne una cassa?”
  • “È tutta la vita che sogno di prendere una collana così!”
  • “Ti ho promesso di prendere una bambola così, ma ho preferito regalarti un trenino!”

(Effettivamente, il pacco Amazon “bimba italomozambicana/capello ingestibile/occhio vispo” è esaurito al momento!)

 

È davvero il caso di usare alcune espressioni per riferirsi a una bambina? Sicuramente c’è chi penserà che questi siano sofismi, che si stia parlando di quisquilie.

“Ma sì dai, ci siamo capiti!”

Invece no. Le parole hanno un preciso significato e il fatto che non ci si sforzi di usare i termini adeguati implica la morte della nostra amata lingua. A volte anche del buon gusto.

Chi non vive in prima persona determinate situazioni farà certamente più fatica a comprendere, non lo metto in dubbio.

Anzi: chissà quante volte io stessa, prima di diventare madre (e vivere sulla mia pelle alcune circostanze) ho posto domande poco ponderate. Domande che avranno messo in difficoltà i miei interlocutori, magari solo perché mossa dalla curiosità.

Autobus, una mattina come tante:

 

(Incredula)  “Che capelli, posso toccarli? Quanti ricci! MA È SUA?”
                      “Mio marito è del Mozambico, signora”
(Spaesata)     “Aaaah. Mozambico, dove esattamente?”
                        “Africa”
(Visibilmente preoccupata) “Accidenti. Ma… quindi è arrivato da tanto?”
                       “Si è laureato qui”
(Sollevata)   “Oh che bravo, meno male, avevo paura che fosse arrivato con quei barconi!”

 

(Tranquilla signora: la tubercolosi e la scabbia gliele attacchiamo la prossima volta!)

6 Comments

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  1. Cristina

    Un articolo scritto bene, la riflessione sulla lingua italiana non è per niente scontata!
    Ci vuole tanta forza per esercitare i propri diritti e tu lo fai ogni giorno! Grazie per condividere le tue esperienze vere!

  2. Sara

    Un bellissimo articolo, scritto con lucidità, delicatezza e la giusta dose di ironia. Non sono una mamma ma sono la zia di una meravigliosa bimba Italo-angolana di nove anni. Quando mi capita, e mi capita molto spesso, di ricevere domande sulle origini della mia nipotina, vedo molte persone trasecolare con occhi confusi alla spiegazione che il gene africano della piccola è quello di mio fratello, che si, è stato adottato. A quel punto il più delle persone mi guarda con fare pietoso cercando di scoprire si più sulla mia famiglia (ma davvero? Ma è più grande o più piccolo? Ma quindi tu sei quella naturale? Ma come si fa? Uh! Anche io ne avrei voluto prendere uno…).
    La mia risposta, prima della cascata di domande non autorizzate di questi sconosciuti, è sempre alla stessa: “sì signora mia.. con le foto di famiglia è un casino.. non ce n’è uno dello stesso colore.. lei mi capisce.. con i filtri di Instagram è un problema..”.
    Facciamoci coraggio e tanti auguri alla tua bella famiglia!!

    • Carola Astuni

      Grazie Sara per il tuo commento. È davvero bello scoprire quante persone vivano la nostra stessa situazione, non solo genitori ma anche nonni, cugini o zii, come nel tuo caso!
      Farsi un po’ di coraggio insieme e raccontarsi aiuta a sensibilizzare chi ci sta intorno. Io ci credo! 🙂

  3. Daria

    Mamma di una piccola italo-senegalese, di tre anni, color “latte macchiato” con capelli afro, condivido tutto quello che hai scritto. Ricordo al primo vaccino l’infermiera mi guarda e chiede con aria incredula “È sua??”, ho risposto un secco “Si” arrabbiata per una simile domanda fatta da una professionista. Dopo ho imparato a rispondere con ironia a tutte le domande non richieste.

    • Carola Astuni

      Hai ragione, Daria. L’ironia è l’unico modo che abbiamo per non farci prendere dallo sconforto: siamo costantemente a caccia di risposte creative! 🙂

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