Estetica del calcio e rimbalzi del vissuto


Saba immagina che nel campo di calcio, le maglie bianche e rosse, correndo, diano una fredda iridescenza alla luce del sole, in un tramonto d’inverno. L’episodio dovrebbe riferirsi alla partita Triestina – Padova, del 10 Dicembre 1933. Di certo il forte vento devia il pallone, facendo valere soprattutto la Dea BendataIn campo, più genericamente un gioco “razionale” (basato sugli schemi collaudati) non impedisce “d’ingabbiare” la fantasia del fuoriclasse. Il brasiliano Garrincha utilizzava una finta micidiale, fra i piedi. A nulla valsero le obiezioni per cui, un po’ alla volta, gli avversari avrebbero potuto prevederla. Garrincha letteralmente danzava coi piedi, “incantando” all’improvviso il suo marcatore. Per Desiderio, la finta calcistica quasi pare la metafora dell’Essere che sempre riconosciamo, in qualsiasi momento (innanzi ad un numero, un’idea astratta, un tavolo da lavoro, un affetto privato ecc…), ma mai in verità di pienezza. Nel campo di calcio, la massima unità del pallone “finge” con la moltitudine di tiri e passaggi che lo differenziano. Immaginiamo che l’Essere si faccia costantemente “raggirare”, attraverso le deviazioni “ammalianti” della metafisica: l’idea di Platone, la res cogitans di Cartesio, lo spirito di Hegel ecc… Di certo il calcio moderno appare più potente che lirico, paragonando Maradona a Ronaldo. Ma i due piani forse si possono allacciare? Esiste la bellezza “inutilmente” estatica d’un gol all’ossimoro fra la leggiadria e la forzatura, come quello di Van Basten al portiere Dasaev.

Dimitrijevic avanza una fenomenologia per la corporalità del calcio. Normalmente, le gambe incidono poco sulla gestualità del vivere quotidiano. Possiamo camminare; ma conta di più la capacità prensile della mano (che consente di nutrirsi, di lavorare, di segnalare qualcosa ecc…). Il calcio darà finalmente una rilevanza alla gestualità delle gambe. E’ fondamentale la loro destrezza. Nel calcio, le gambe diventano letteralmente altre mani. Per Dimitrijevic, pure il linguaggio della letteratura si dà nella destrezza. L’aggiunta d’una semplice virgola, od il simbolismo degli aggettivi, ad esempio porteranno l’intera frase a “respirare” di senso. Così, subentrerebbe la percezione della destrezza. Dimitrijevic crede che nel calcio la capacità sensoriale delle gambe s’accompagni all’intelligenza in testa. Prima di tirare o passare il pallone, bisogna badare alla sua destinazione. A mediare fra la “passionalità” delle gambe (all’impulso di correre) e la “freddezza” del “calcolo pragmatico” (considerando la tattica), sarà per Dimitrijevic il cuore (l’onesta volontà di giocare). Lo stesso accadrebbe in letteratura. Un romanzo od una poesia dovranno “coinvolgerci”, oltre sia l’immediatezza degli aggettivi e del simbolismo, sia la più “ricostruita” significazione (tramite la comprensione concettuale).

Perniola avanza il caratteristico sex-appeal dell’inorganico. Nell’era contemporanea, il rock, la fantascienza, la realtà virtuale, la performance estetica, lo sport ecc… accadono ammettendo che le cose possano “sentire”. Là, si percepirà una vitalità solo neutra, avente una vena artefatta. Per Hegel, nella cosa inorganica nessuno distingue fra l’interiorità e l’esteriorità. Là non c’è la manifestazione d’una certa essenza, bensì una certa essenza del manifestarsi. Goethe scrisse che la natura manca sia d’un “nocciolo” sia d’una “scorza”, apparendo così “tutta d’un getto”. Il manifestarsi… del mero manifestarsi impedisce di distinguervi l’interiorità dall’esteriorità. Perniola conclude che se una cosa potesse “sentire”, allora essa “vivrebbe tutta d’un getto” (come la natura). Quantomeno il rock, il cinema tridimensionale, lo sport, la performance artistica ecc… sembrano a manifestare… il mero manifestare. Chiaramente gli ambiti si possono ricombinare fra di loro. E’ il caso ad esempio della partita di calcio in televisione, quando il tifo sembra davvero in grado “d’abbracciare” lo schermo, gioendo per il gol all’ultimo minuto…

Per Virilio, spesso noi accediamo agli edifici contemporanei tramite porte d’ingresso che fanno circolare la gente. In ambito architettonico, salta una netta distinzione fra la dimensione del pubblico e quella del privato. Si pensi agli usci vetrati dei negozi, al casello autostradale, ai tornelli presso lo stadio, ecc… Varcandoli, in realtà pare che non andiamo da nessuna parte, mancante una chiara separazione fra lo spazio interno e quello esterno. Virilio pensa che questo comporti la caratteristica estetica della sparizione. Gli abitanti non ci sarebbero più, sostituiti dagli individui perdutamente in transito. Nel mondo del calcio, il tifo funziona “incredibilmente” all’opposto. Così, c’è l’affermazione per cui si può cambiare un partner, ma mai la squadra del cuore. Sini ci ricorda che i giocatori di calcio devono scendere in campo mantenendo un buon amalgama, per l’interesse intersoggettivo della vittoria finale. Percepito dalla tribuna, è il classico incitamento ad onorare la maglia. In campo, ormai gli allenatori chiedono sempre più una disponibilità a ricoprire vari ruoli, pure nella medesima partita. Vincerà la dedizione alla squadra.

Nella moltitudine, il singolo individuo “subisce” passivamente ciò che sta percependo. Qualcosa che accade assistendo ad una partita di calcio, dalla tribuna. Il tifoso non sembra responsabilizzato. Nonostante la sua passione, egli si limiterà a “rispettare” il normale cliché del momento? Qualcosa che semplicemente “esasperi” la “noiosità” del check-in aeroportuale? Nella moltitudine, pure da stadio, tutte le persone coinvolte vivono in un “piccolo” mondo. Precisamente, è una dimensione esistenziale che generalizza l’intrinseco. Le persone vedranno… di veder-si (fuor di metafora, a ri-conoscersi), ma in via solo “passiva”. Per loro, conterebbe un “piccolo mondo” dell’interiorità. Chi va in tribuna osserva se stesso come mero appassionato (di calcio, di tennis, di pallavolo, ecc…). Nella sala d’attesa, all’aeroporto, noi c’immaginiamo oltre le terre “note”, viaggiando. Durante un “esaltante” concerto, conta l’immedesimarsi nel musicista che si preferisce. Però la moltitudine postmoderna ha interfacce che non responsabilizzano mai gli individui. Questi eviteranno un reale incontrarsi.

Desiderio aggiunge che, dalla tribuna, lo spettatore si sentirebbe un privilegiato. Egli avrà la comprensione totale della partita, sino ad immedesimarsi con l’allenatore, sugli schemi di gioco e le sostituzioni da provare. Pare una situazione essenzialmente idealistica, dove però la razionalità si fa contraddire, mediante la responsabilizzazione solo “al passivo” del tifo. Inoltre, ogni calcio sul pallone conserva un alto grado d’imprevedibilità. Citando Cartesio, in ciascuna verticalizzazione mancheranno la chiarezza e la distinzione del “pennellato”, quantomeno escludendo i pochi fuoriclasse del caso, come Pirlo. Più in generale, sono i “motorini” del centrocampo a dover padroneggiare una “visione lunga”, sino ad “interiorizzare” l’intera partita. All’attaccante preme troppo il gol, il difensore può limitarsi al “compitino” di marcatura. E’ dai centrocampisti che di norma escono i migliori allenatori.Per Desiderio, nel calcio il pallone si percepirà pure a danzare. Questo è stupefacente, contro tutta la pesantezza delle gambe, mai libere nemmeno nella solitudine d’un rigore, se permane il fine della vittoria. Forse, il calciatore ricorda l’artista. Al di là della vittoria, la bellezza d’un dribbling, d’una triangolazione o d’una rovesciata ci prendono a tal punto da “nascondercene” l’autore. Sappiamo che il calcio è lo sport nazionale in quasi tutti i paesi del mondo. Grazie alle gambe, l’uomo riesce ad avvicinarsi. E’ una metafora per la conoscenza, che nel calcio “sfogherà” tutta la sua tensione. Vivendo, dobbiamo sempre decidere. Grazie al gol, la rete si gonfia. Qualcosa da immaginare come una “presa di coscienza” fra le cause e le conseguenze delle nostre scelte. Il calcio sa caricare il semplice cammino d’una “ritualità”. E’ una buona metafora per l’avvicinarsi ad un risultato, esaltandone sia la gratificazione (con la vittoria) sia la delusione (con la sconfitta). La teatralità del calcio, fra i tiri nel “sette”, il dribbling “ubriacante” ed il rigore all’ultimo minuto, funzionerebbe assai meglio rispetto a quella d’arte. Il pallone non necessita d’uno sforzo per trasformazione, se innanzi alla porta basterà segnare. Al massimo, l’immaginazione al potere per il dribbling “ubriacante” confermerebbe il primato dell’artista, contro gli schematismi della vita ordinaria (in specie a lavoro).

Platone pensava che l’addestramento ginnico non servisse solo per combattere, ma anche per diventare virtuosi. In particolare, così si favorivano l’autodisciplina, la resistenza psicologica e la dedizione verso lo Stato ideale. Più in generale, Heidegger ricorda che l’uomo appare “gettato” in un mondo, laddove questo si riflette in lui “avendo cura” delle singole situazioni.

Nel calcio, il pallone è costantemente trattenuto. In tale immanenza, ci si “scontra” di continuo con le varie possibilità sia dei compagni (al passaggio, al tiro, allo scatto ecc…) sia degli avversari (all’intercettazione, al fallo, al fuorigioco ecc…). La cura in via fenomenologica si percepisce nella responsabilizzazione della propria “finitudine”. Il gioco di squadra è sovente meticoloso, anche per la necessità d’adattarlo ai diversi avversari.

Pintarelli ci ricorda che nel calcio la sforbiciata si fa ricevendo il pallone dalla fascia laterale, e sino ad incrociare le gambe, parallele al terreno, mentre si può guardare attentamente la porta. Qualcosa che noi percepiremmo nella propria “immanenza”, se la sospensione rientrasse sulla coordinazione (senza affidarsi al mero destino). La sforbiciata appare pure infantile, al tagliuzzare che semplicemente si gode, ed artistica, al modellare che lima il superfluo. Qualcosa da percepire all’immanenza d’un “trastullo”? Ricordiamo la cordicella che lancia la trottola… Nel calcio, esiste la veronica, come “finta” tecnica d’alto livello. Gadamer invita a percepire un “trastullo estetico” per il primato della domanda. L’ermeneutica determina un dialogo per reinterpretazioni. Più in specie, però, sarà impossibile giocare unicamente per se stessi. Ciò comporta sempre una reciprocità, a livello fenomenologico. Un gatto a volte gioca col gomitolo di lana, che subito (necessariamente) gli “concorrerà”. Per Gadamer, a nulla servirà obiettare che in quel caso gli avversari saranno impossibili. Chiaramente, mancherà la volontà umana. Addirittura, a Gadamer pare che il gioco del calcio diventi popolare giacché il pallone, quando si muove, assume giri all’inizio imprevedibili. Conta poco il fatto che esistano gli avversari in campo. L’imprevedibilità del pallone fa in modo che questo letteralmente “crei” il gioco, da solo. Ma si può ricavare una fenomenologia più generale. Gadamer ha scritto che si gioca… solo per giocare (cioè in modo disinteressato, quasi nell’illusione di farlo).

Per Cordner, lo sport e l’arte si separerebbero dal mondo ordinario. Nei due casi, non si dovrà rispettare l’urgenza della vita. L’arte conosce la cornice dei dipinti, od il palcoscenico a teatro. Lo sport avviene tra le piste, i campi, le corsie ecc… In quei casi, l’ordinamento della vita non sarà banalmente pragmatico, ma perfino bello. Tuttavia, a teatro nessun spettatore può salire sul palcoscenico… Anche più chiaramente, una cornice separa. Consideriamo la percezione del catturare. Qualcosa dove l’ordinamento accade nella propria giustificazione, così da piacersi. Lo sportivo essenzialmente deve catturare una gara, come il pittore ed il fotografo, rispetto ai colori od alle luci. Per Aristotele, la bellezza dipende sempre dall’ordine. Solo, nell’arte i vari materiali (i colori, i marmi, le pellicole ecc…) sono fini a se stessi, mentre nello sport si deve vincere la partita (a volte, anche giocando male…). Un fenomeno estetico sempre “ci prenderà”. E’ l’interiorità espressiva che si fa inquadrare dalla vitalità. Allora, forse il fenomeno estetico ci permetterà un agonismo… da performance? In generale, il giocare si fonda su regole abbastanza “razionali”. Qualcosa che per Cordner non potrebbe appartenere al vissuto (naturale, sociale, politico ecc…) del nostro quotidiano, sempre “imprevedibile”.

Per Desiderio, il calciatore migliore deve mostrare d’avere un sesto senso. Conterà la situazione, al “districarsi” fra l’opzione d’un passaggio, un anticipo od uno scatto. C’è dunque la potenzialità del calcolo imprevedibile, in un “affido” al proprio “senso della posizione”, ben oltre gli schemi provati in allenamento. Curiosamente, una simile fenomenologia torna nell’uso delle divise sportive. E’ grazie a queste che noi possiamo immediatamente riconoscerci nel nostro tifo. Il calcio ama molto il rigato. Basta citare le tre squadre più blasonate d’Italia: la Juventus, il Milan e l’Inter. Per Pastoureau, vestendoci a righe noi saremmo percepiti dentro una certa “audacia” di carattere. Parrà un modo per mettersi in “bella mostra”. Di contro, nel medioevo per la mentalità comune una superficie rigata avrebbe potuto “turbare” il nostro sguardo. Ciascuna immagine al grado di correttezza (nell’accezione più oggettiva e realistica) doveva mantenere una precisa profondità. Qualcosa che virtualmente “si tagliasse” nel proprio “riposo” (a stabilizzarsi) di sovrapposizione, fra i piani. L’immagine del rigato invece si sarebbe “svalutata” da sola. Guardandolo, gli manca una chiara profondità (da cui risalire, per stabilizzarne i piani). Là, solo si percepirà la “confusione” per cui ad una riga… ne segue comunque (subito) un’altra. Non si vedrà né il piano della figura, né quello del suo orizzonte (in profondità). Di contro, possiamo percepire che il rigato della maglia calcistica “ci stabilizzi assai”, sotto la fedeltà del tifo, comunque perturbante in caso di partite decisive.

Per Arpino, la Juventus ha al nome una stella nella curva del cielo. Si può visualizzare la lettera J, la quale rimbomberebbe in terra. La Juventus è detta la squadra “dei gobbi”, e naturalmente ottenne la prima stella (al decimo scudetto) già nel 1958. Il tifoso lancerà i suoi coriandoli, in specie festeggiando un gol. Per Arpino, la parola Juventus si realizza al riecheggiare. E’ anche nota la sua striscia di scudetti! Lo sport in generale avalla l’evasione, sino a sperare nei festeggiamenti. Forse, rimane l’eccezione del portiere. Fondamentalmente egli deve limitarsi ad evitare… il normale, quindi il gol. C’è una solitudine di fondo, confermata dalla sua eccezione per il tocco di mano. Il portiere quasi pare a Desiderio l’Uno del neoplatonismo, con la contraddizione di dover emanare un gioco diverso, dal calcio di rinvio. Qualcosa da percepire in via esistenzialistica…

Per Sartre, l’uomo è l’essere tramite cui il nulla si dà nel mondo. Vale la massima libertà per l’identificazione al se stesso, ma pure (nel contempo) la scomparente alterazione per la diversità con l’esteriorità. Nell’insieme, resta l’esistenza… contro l’universalità dell’essenza. Quest’ultima ha costantemente una mancanza nella sua possibilità d’apparire. La libertà è sempre “di frattura”. Non basta, positivamente, identificarsi col se stesso. La libertà si dà letteralmente “slittando” sul nulla tramite cui l’Altro le appare. Per Desiderio, il pallone da calcio dimostrerebbe che l’esistenza precede l’essenza. Anche se completamente fermo, alla nullità del nostro differenziarsene, esso comanda ogni possibilità. Si prescinderà dalla bravura di campioni come Maradona, Pelé, Ronaldo o Messi. In chiave esistenzialistica, sarà la metafora per un “rimbalzo” del vissuto che “slitti” dalle situazioni irripetibili.

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