Democrazia: una nave alla deriva nel mare delle opinioni


Noi del vecchio continente siamo navigati marinai della politica: siamo saltati sulla nave chiamata Democrazia più di 2500 anni fa, ad Atene, per salvarci dai mari in tempesta delle fazioni in lotta.

Non tutti, ovviamente: ancora oggi in Europa ci sono 12 monarchie, una delle quali addirittura assoluta. E anche in Italia, in barba a qualsiasi buonsenso, c’è chi vorrebbe di nuovo un monarca o un dittatore.

È passato molto tempo da quella prima forma di democrazia diretta e già imperfetta: il démos (popolo) che poteva esercitare il kràtos (potere) era composto dai soli cittadini della polis (città), un numero molto ristretto di individui che escludeva schiavi, donne, stranieri. Un concetto molto diverso da quello odierno!

Gli intellettuali dell’epoca si erano già accorti di alcune falle nella nave e non furono affatto grandi fan della democrazia. Platone ad esempio la mette tre volte distante dalla forma di governo ideale, il governo dei filosofi, e anche per Aristotele non era proprio il massimo.

Nonostante le falle la nostra nave ha fatto parecchia strada, in molti casi costituendo l’unica salvezza contro la barbarie dei totalitarismi, l’unica garanzia di un qualche tipo di uguaglianza in molte parti del mondo. Per la democrazia (o nonostante la democrazia) si è lottato, si è sparso sangue, fino alla morte.

Le democrazie contemporanee sono molto diverse da quella greca antica: sono democrazie indirette, dove il popolo elegge dei rappresentanti che sono specialisti della politica e prendono decisioni per la comunità dei cittadini. Sabino Cassese, nel suo La democrazia e i suoi limiti, ci mostra da una parte tutta la ricchezza di questa forma di governo, dall’altra ne rivela i limiti intrinseci e “tutto ciò che in democrazia non è democrazia”: infatti l’apparato statale, per funzionare, necessita di specialisti in vari settori (amministrazione, giustizia, ecc) che non sono eletti direttamente dal popolo, ma concorrono alle varie posizioni o per nomina dall’alto o tramite concorsi. Quindi, la democrazia contiene già in sé un elemento aristocratico, o epistocratico: una considerevole parte del potere viene esercitato da coloro che sanno, e non può essere altrimenti.

Il dilagare dei populismi nel mondo, conseguenza di una classe politica incapace o corrotta, va di pari passo con una maggiore domanda di democrazia, ma su cosa sia questa democrazia c’è ancora molta confusione. I vari Trump, Obrador, Xi Jinping, Duterte, Orban, Kaczynsky, Di Maio potranno avere anche a cuore gli interessi dei loro Paesi, ma nel contempo in questi aumentano anche la diffidenza verso lo straniero, la chiusura verso l’esterno, in alcuni casi anche la restrizione dei diritti civili delle minoranze. Sembra quasi di sentire il Socrate della Repubblica ammonirci sul rischio della degenerazione della democrazia in tirannide: e la storia ci insegna che questa non è solo una fantasia.

Cosa diventa la democrazia, che è nata in seno agli stati nazionali, quando viene pensata in un contesto più grande e globalizzato? Chi decide che cos’è davvero democratico e chi può garantire qual è un “livello adeguato di democrazia”? Lo storico Franco Cardini ci mette in guardia contro ogni tentativo di esportare la nostra idea di democrazia, che è il risultato del nostro particolare processo storico europeo (e poi americano), non condiviso con altri Paesi del globo.

Chi scrive pensa che ci sia troppa confusione sul termine democrazia: prevalgono le opinioni e non le idee ben argomentate. Il nostro Platone direbbe che c’è in giro più doxa (opinione) che epistéme (scienza), e che uno stato ben governato può esserlo solo se al governo vi sono persone sapienti. Utopia? Forse, ma anche obiettivo a cui tendere.

Chissà se John Dewey aveva ragione, quando proponeva per la partecipazione di ogni cittadino alla democrazia requisiti di alfabetizzazione, competenze sociali e culturali, pensiero indipendente. Chissà se gli apparati scolastici saranno mai in grado di soddisfare questa domanda!

Una risposta ad essa è quanto mai necessaria, per evitare che le democrazie si trasformino in quelle che Polibio chiamava oclocrazie, il dannoso malgoverno di una folla disordinata e incapace.

E per fare sì che l’assonanza tra demos (popolo) e deimos (il terrore) resti solo una questione linguistica.

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