Requiem in Arena


Seduta sul marciapiede, muove le mani in circolo e aspetta.

Il fumo intorno a lei ha l’odore delle cose malvagie. Ha le orecchie piene di quel suono, che ha travolto la memoria di tutti gli altri: il saliscendi di note, il fruscio dei corpi che danzano al ritmo, le risate e i cori a squarciagola; i respiri eccitati dall’adrenalina che trasmigrava all’interno dell’Arena. Niente più, adesso. Soltanto quel rimbombo afono, cupo come una maledizione che arriva da molto lontano; che questa sera è, invece, troppo troppo vicina.

Non ha nessuna forza, nessun pensiero positivo che la sferzi a sentirsi quantomeno una privilegiata.

Seduta sul gradino che lentamente si screzia di rosso, non vede nemmeno più cosa sia il mondo che ha davanti.

Non lo capisce più, questa è la spiegazione che si potrebbe dare. Se solo esistessero ancora le spiegazioni.

Ma lei è oltre. C’è, ma non proprio. Un elemento quasi immobile nel groviglio di urla che precipitano da ogni dove.

Dove… le basterebbe sapere solo questo.

Non il come, né il quando. E neppure la risposta alla domanda più banale e assurda. Perché?

Fra le poche cose che sa, c’è che un perché razionale non esiste.

Non è mai esistito. Non è mai stato sufficiente; non è mai servito a capire. Né tantomeno a riparare il danno.

Il danno…

Un briciolo di lucidità sembra affiorarle chissà da dove, perché la scelta del sostantivo le fa piegare le labbra in un modo che, a vederla, le persone potrebbero spaventarsi. Ancor più di quanto lo siano adesso.

Il danno…

Forse è il modo che il cervello ha per proteggersi, la via che sceglie per rendersi immune. Per non impazzire del tutto.

Rendere impersonale il dolore. Affibbiargli un nome generico, vuoto. Uno stratagemma che le consenta di fuggire.

Solo che… lei non può farlo.

Foto tratta da il Post, credit: Jeff J Mitchell/Getty Images

Non può allontanarsi. E non è una questione fisica. Non è per una mutilazione o altro. Lei, l’ha pensato già prima, è una privilegiata. Una che è riuscita a passare indenne attraverso la follia. Una che l’unico sangue addosso ce l’ha sopra i pantaloni, fuori.

No, non può allontanarsi. E il motivo è semplice.

Non può smettere di muovere le sue mani. Non può interrompere quella cantilena gestuale. Non può – non vuole – smettere di accarezzare quella testa che ha sulle ginocchia.

Non serve a nessuno quel frammento di umanità, questo è in grado di capirlo. Non serve a riportare in vita quel corpo giovane, sconosciuto, al quale le sue lacrime impediscono di dare un’età precisa. Non servono, le sue mani, a placare l’apocalisse che le vortica intorno: senza fine, senza luce.

Però, non riesce a smettere e non lo farà; almeno fino a quando arriverà qualcuno a dirle che è il momento.

Seduta sul marciapiede, muove le mani in circolo e aspetta. Quel momento. Se mai arriverà.

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