First Person Cinema : Vivilo in prima persona!


Hardcore : si evolve il First Person CinemaQuando non troppo tempo fa venne distribuito il film Hardcore Henry, da noi semplicemente Hardcore!, non si poteva fare altro che constatare la presenza di due poli, due posizioni fra loro complementari e allo stesso tempo opposte, irriducibili. Inutile girarci tanto attorno. Il giudizio su Hardcore! è stato scisso fra l’esclamare più o meno entusiasticamente che si era di fronte a una traduzione fedele dell’esperienza videoludica del genere first person shooter (tradotto: è come un videogioco!) e, dall’altro lato, la condanna; la poca comprensione che va da chi semplicemente storce il naso di fronte a un’operazione interpretata come noiosa ripetizione di un linguaggio codificato altrove, a chi invece rigettava questo tentativo con le più vecchie e usuali argomentazioni contenutistiche su narrazione assente e violenza visiva. Alcuni esempi:

«Il film di Ilya Naishuller riproduce alla perfezione lo stile dei più amati fps per ricreare un’esperienza esplosiva e unica, che esalterà gli amanti di un certo tipo di azione e farà inorridire tanti “dinosauri” per i quali il Cinema è un’altra cosa»[1].

«C’è un senso di disinteresse per la violenza che è un grido amorale fortissimo. Non sarebbe per nulla sbagliato quindi sostenere che la mancanza di un’etica e di un punto di vista su ciò che racconta è la caratteristica principale del film»[2].

Giustamente qualcuno arrivava ad affermare che Hardcore «È, essenzialmente, un film “gimmick, quella parolina inglese che viene usata per indicare quel tipo di cinema in cui il “trucchetto” tecnico assume più rilevanza del film stesso»[3]. Una buona parte degli spettatori, dalla quale ammettiamo di non poterci mai totalmente chiamare fuori se posti di fronte a prodotti come questo, avrà catalogato nella sua memoria il film come qualcosa in cui è «inutile cercare altro in una trama che è poco più di un patchwork di citazioni da classici cyberpunk con un misto di Crank e Arancia Meccanica: è cinema privo di una sua etica ed estetica, nato per stupire gli sguardi più virginali e per essere rapidamente dimenticato»[4].

Queste opinioni preparano il terreno, portano l’attenzione su di un prodotto che la semplice strategia di marketing ha venduto e confezionato con l’utilizzo di esclamazioni urlate e dai toni rivoluzionari: «ogni generazione ha il suo film che cambia tutto per sempre». Ma la frase di lancio forse più interessante, su cui torneremo, è «vivilo completamente in prima persona» (da cui il First Person Cinema), che denota indiscutibilmente come tutta la campagna sia stata improntata sull’utilizzo della soggettiva in quanto fattore di primario interesse; anche se è bene sottolineare come da questo trailer si nota quanto la prima parte si preoccupi di valorizzare molto il plot, presentandone tutti gli aspetti, quasi a voler rassicurare che si tratta di film narrativo. Se abbiamo già classificato il prodotto, compreso il suo linguaggio, la sua origine, come prontamente più o meno tutte le recensioni hanno già fatto, cosa rimane in un’operazione come questa di poco chiaro, fuori fuoco e poco definito come a volte la sua stessa immagine, sempre in movimento ma sorretta da un montaggio precisissimo e frenetico? Questo parallelismo fra immagine e montaggio non è solo una buona metafora, ma può assumere una utile funzione interpretativa. Da un lato dobbiamo prendere atto della presenza di tutti quelli che possiamo chiamare elementi di stile, o più propriamente figure sul piano espressivo, che caratterizzano il corrispettivo genere di videogame, come un lancio in una capsula orbitale, la batteria che segnala le vita a disposizione, l’aiutante che, clonando sé stesso, possiede vite infinite e infiniti alter ego, il nemico o boss finale con superpoteri.  Tanti possono essere gli esempi (come anche i luoghi, o lo stesso protagonista, un cyborg), talmente generici e astratti da poter essere assimilati facilmente da chiunque abbia mai anche solo osservato qualcuno giocare a “qualcosa” negli ultimi vent’anni. Potremmo facilmente concordare definendo questo tipo di operazioni traduttive come una tensione verso una totalità e una identità nei confronti del medium di origine, ma senza alcun referente preesistente. In altre parole, Hardcore! traduce “il” videogame senza basarsi su alcun titolo preciso. La relazione non si fonda su un trasferimento, su un adattamento, «ma viene per cosi dire generata artificialmente»[5]. Questo, dicevamo, dal lato dei prestiti dal medium elettronico, mentre da quello più specificamente cinematografico troviamo appunto un montaggio che caratterizza l’azione in termini spesso adrenalinici, con un alto numero di stacchi volti a sintetizzare l’azione, renderla più assimilabile al cinema d’azione, presentando peraltro un grande numero di stuntman e coreografie che sono la cifra stilistica del genere. Esercizio abbastanza inutile può essere quindi discutere a riguardo di “strutture narrative uguali fra cinema e videogame” perché a rigore si tratterebbe di valori talmente astratti (salva la principessa, supera le prove) sempre presenti di fatto in ogni fiaba o narrazione fantastica.

Avendo già parlato in precedenza di relazioni traduttive, può essere allora più utile ora adottare un approccio strettamente tecnologico. In particolare possono aiutare quei film che, nel passato recente che vedeva la conquista del cyberspazio come ultima frontiera, hanno elaborato alcune strategie non poi molto diverse da Hardcore!. In Brainstorm (D. Trumbull, 1983) possiamo osservare una prima parte in cui le soluzioni visive adottate derivano da una logica di stimolazione sensoriale permessa dal potenziamento dell’apparato cinematografico. Questo produce una «intensificazione della retorica cinematografica»[6] che vede coinvolte alcune delle soluzioni che, nella teoria del cinema, chiamiamo “cinema espanso”, ovvero alta risoluzione, suono potenziato, schermo allargato, cinetica esagerata. In poche parole, tutto ciò che oggi al cinema può produrre o riprodurre anche quella sensazione tipica della vertigine. Le stesse caratteristiche su cui punta Hardcore! sembrano allora quelle prodotte in Brainstorm dalla tecnologia della realtà virtuale che mira direttamente al cervello del soggetto per provocare stimolazioni dirette, sensoriali e a 360° (ricorda Strange days?). E qui sta il punto: l’utilizzo della tecnologia di ripresa a 360°, l’adeguamento di piattaforme come Youtube alla fruizione di tale tecnologia, lo sviluppo e l’attuale commercializzazione di visori VR apre di fatto le porte a un immaginario che, passando per gli anni ’80, il cinema non ha mai realmente smesso di elaborare.hardcore-henry-camera-rig-gopro

Con film come Hardcore! si tratta di rilanciare l’immaginario legato a questa tecnologia e rifarlo in modo apparentemente più radicale ma votato, di fatto, al raggiungimento di quegli obiettivi che già un film come Brainstorm voleva mostrare. Laddove il film di Trumbull riduceva le sequenze a momenti circoscritti, Hardcore! vuole fare di tutto per abbattere ogni barriera, per adattare fedelmente il linguaggio cinematografico, ma non rinunciando a specificità come i tagli di montaggio, in modo da rendere più fruibile l’esperienza in sala che risulterebbe altrimenti ancor più indigesta e tecnicamente “impossibile”. Proprio attraverso il mantenimento di un montaggio possiamo spingerci a considerare un tale film come forma di “accomodazione” in funzione di una abitudinarietà alle tecnologie VR che, visti gli investimenti, pare affacciarsi nell’attualità con la data di uscita di Playstation VR il 14 ottobre e l’acquisizione di Oculus Rift da parte di Facebook con tanto di annuncio dell’apertura di uno studios dedicato ai contenuti VR. Il risultato è quindi a nostro avviso un presente che utilizza cinema e videogame per parlare di sé stesso addomesticando e preparando lo spettatore. Senza alcun primato. Hardcore! ha la stessa funzione di Google Cardboard: rendere fruibile l’esperienza della realtà virtuale a un grado zero, economico e alla portata di tutti.

3a8ffdeac3fea9Una concezione da sempre esistita come quella del cinema sensoriale è il fine ultimo per ricondurci alla fascinazione delle esperienza di realtà virtuale. Vedendo le cose da una prospettiva cinematografica, visto che di cinema ancora si tratta, il videogame assume il ruolo di mediatore a tal fine. E l’action è di fatto il genere che adatta, fa da cuscinetto fra i due media. Un altro mediatore, che immaginiamo come affine, potrebbe essere costituito dal “foud footage”, pratica e linguaggio che a partire dalla fine degli anni ’90 si è imposta sempre più nelle produzioni Horror mainstream e che di fatto vorrebbe giustificare le soluzioni narrative e di montaggio con il ritrovamento e l’uso di materiali pre-esistenti (girato da parte di operatori presenti in prima persona, soggettive, videocamere ritrovate sui luoghi degli eventi) Tali caratteristiche sembrerebbero perfettamente conformi laddove un film come Hardcore! fa della presenza sentita della macchina da presa/occhi del protagonista il centro permanente della sua narrazione, un pò come accadeva nelle sequenze registrate direttamente dalla mente in Strange Days. In verità queste premesse sembrano ad oggi essere stabilmente appannaggio dell’horror per ragioni di budget e target distrange-days-03 riferimento, con relativa saturazione. In effetti le cose si stanno evolvendo in maniera forse molto più prevedibile, il che può significare scegliere di girare con videocamere a 360° guidando lo spettatore in un percorso fisso e previsto, strategia ancor più similare ad alcuni videogame, i cosiddetti “fps su rotaie” e che fa nuovamente portare alla mente l’esperienza di certe giostre nei parchi divertimento. Certo, possiamo immaginare con facilità che in tempi anche brevi la sperimentazione linguistica possa abbracciare anche questi “video in VR”, ma contemporaneamente ci aspettiamo anche una possibile saturazione analoga all’horror found footage.

Al festival del cinema di Venezia è stato presentato Jesus VR, definito, a differenza di Hardcore!, il primo film in realtà virtuale. E’ proprio questa voglia di primato che accomuna queste forme di adattamento tecnologico, e nel momento in cui si vuole essere i primi ad esplorare nuovi territori è possibile confondere l’accecamento e l’ebbrezza dovuti alla vastità degli stessi con l’incapacità di vedere che quegli stessi erano stati calpestati innumerevoli volte da indigeni, li presenti da parecchio tempo prima. Il cinema, come qualsiasi medium, non può fare altro che ri-mediare ed essere ri-mediato all’infinito, sta poi a fruitori e produttori definire i suoi confini anche all’interno di un linguaggio, quello della realtà virtuale, che si è sempre voluto fare totalità, mondo senza confini, affascinante vocazione cinematografica del volere abbracciare tutto il visibile in un unico sguardo.

[5] F. Zecca, Cinema e intermedialità, p. 305.

[6] S. Bukatman, Terminal Identity p. 178.

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