Ma Prandelli non piace più a nessuno?


“Vae victis!”. Guai ai vinti. Chissà se è una lezione che abbiamo mandato a memoria proprio quel giorno di millesettecento anni fa, allorché Brenno, condottiero dei Galli Senoni, saccheggiò Roma e con queste parole ne schernì gli abitanti. O forse lo sapevamo saputo noi per primi fin dall’alba dei tempi, e quel giorno, così come tanti altri nei secoli a venire, è stato semplicemente un monito a ricordare come gira qui sul globo terracqueo.
Nessuno, da Natal, da quel 24 giugno 2014, da quel goal di Godìn, è stato più sconfitto di Cesare Prandelli. Non Mario Balotelli, che tra il Liverpool e il Milan 2.0 ha avuto altre due occasioni per riscattare l’opaca Coppa del Mondo, peraltro sfruttate malino entrambe. Non la vecchia guardia, che Antonio Conte ha confermato quasi in toto, e anzi basando su quella la spina dorsale della sua Nazionale. Non Giancarlo Abete, che ha lasciato la presidenza a Tavecchio ma che bazzica ancora l’ambiente di Coverciano e che come documentava un annetto fa un noto quotidiano nazionale è tornato a far pesare la sua presenza nelle stanze che contano. Nessuno dei corresponsabili del disastro brasiliano è stato ostracizzato quanto Cesare Prandelli. Che prima piaceva a tutti, mentre dopo si è trovato solo e senza supporter. Amici, amici…
È cominciato tutto dopo le sue dimissioni. Anzi, per essere precisi con le sue dimissioni, perché ci fu qualche pennivendolo che lo criticò perché abbandonava la barca che affondava, insieme con Abete stesso. Come se non sapessimo che se fossero rimasti al loro posto sarebbe scattato immediato il “Tutti attaccati alla poltrona!!!!1111 A casa!!!111”. Quando si fece avanti il Galatasaray a offrirgli un rifugio, venne giù il diluvio. Qualcuno gli rimproverò la fuga immediata verso i lidi turchi, o se preferite l’aver trovato subito una nuova sistemazione, come se avesse avuto l’obbligo morale di stare nell’angolo in castigo finché non avesse espiato la colpa. Più d’uno si stracciava le vesti per il ricco contratto che il fresco ex c.t. aveva accettato, anche se poi magari al suo posto molte di questi gentiluomini avrebbero fatto lo stesso perché “pecunia non olet”. Qualcun altro si scandalizzava perché avrebbe guidato un club in Champions League, perché dopo una catastrofe come quella brasiliana al massimo massimo avrebbe potuto ambire a una panchina di Prima Divisione, e ringraziare. Tutti saltarono sul carro di Cesare allo scopo di buttarlo giù dalla rupe, e ci fu chi sogghignò e non fece nulla per nasconderlo quando il 27 novembre dello stesso anno il club turco lo sollevò dall’incarico dopo una campagna europea fallimentare (ultimo posto nel girone). D’altra parte, questo è come funziona a queste latitudini: se vinci sei bravo, se perdi facendo di testa tua meriti cattiverie gratuite perché sei un…beh, l’insulto ce lo mettete a piacimento voi che leggete, ma sempre di insulto si tratta.
Il fatto è che di Natal Prandelli fu il meno colpevole. Ci mise del suo, come no, con alcune scelte tattiche senza criterio e un’inquietudine mista a insicurezza sempre più evidente man che passavano i giorni, percezione avuta anche dopo la vittoria contro l’Inghilterra. Ma le responsabilità più grosse sono attribuibili a ben altri fattori: a un movimento italiano che dalla fine dello scorso millennio si è specchiato in sé stesso, in recessione perché incapace di staccarsi dalla mentalità del risultato ad ogni costo, sguazzando nel detto agnelliano “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” e in quello, più recente contiano: “Dei secondi non si ricorda nessuno”, due affermazioni prese per verità assolute ma tutte da dimostrare; a club perennemente impegnati in un tutti contro tutti, attaccati ai diritti tv perché incapaci di generare entrate in maniera differente, e che vedono in una Nazionale che porta via loro giocatori per vere amichevoli o virtuali stage non una possibilità di crescita o un potenziale investimento, ma un pericolo nel caso di infortuni dei loro atleti; a uno zoccolo duro che non è riuscito a gestire l’innesto dei nuovi arrivi e che nel momento del bisogno non ha offerto il petto alle critiche come solitamente lo offre ai complimenti, ma ha pensato bene di scaricare la responsabilità su chi era arrivato dopo, nello specifico facendo implicitamente riferimento una nota variabile impazzita come Balotelli, sul quale però in precedenza dovevano pur aver dato il loro beneplacito al c.t., se no non ci spieghiamo come Balo abbia fatto tre anni in Nazionale pur essendo inviso al gruppo storico.
Ora, ammesso e non concesso che si possa spiegare la salute di un movimento semplicemente a seconda del successo o dell’insuccesso in una manifestazione che dura pur sempre un mese e ha luogo ogni quattro anni (e per non si può), devono ancora dirci perché l’unico a essere lapidato è stato l’allenatore delle scelte sbagliate e non tutto il resto dell’iceberg che sta dietro la Nazionale (se non en passant). Non accetteremmo e non accetteremo la spiegazione molto italiana “È sempre l’allenatore che paga”, maniera dozzinale, cialtrona e vigliacca di liquidare un’ingiustizia nei confronti di qualcuno con troppo poco potere per ribellarsi.
In fondo, sarà anche bello quando Cesare avrà nuovamente la sua occasione. Perché di Cesare abbiamo tutti un ottimo ricordo, anche chi scrive, che ne è stato prima aperto ammiratore per l’opera di ammodernamento della Nazionale, poi diffidente sostenitore sulle politiche di selezione e infine amareggiato critico della gestione del gruppo. Se siamo ancora qui però ad augurare a Cesare di tornare presto in sella, un motivo ci sarà, e in effetti c’è. Perché Cesare è una persona onesta, assennata, che non si è preso la responsabilità di provare a iniettare Balotelli dentro l’Italia, ben sapendo che acclamava il ragazzo bresciano poi in caso di esperimento negativo ne avrebbe criticato la scelta, seguendo il principio che da fuori sono tutti buoni a pontificare, come in effetti è successo.
Ci piacerebbe rivederlo in sella, magari non alla corte di un Claudio Lotito a cui dare la propria parola per poi vedersi sopravanzato dal Bielsa di turno, e nemmeno l’Atalanta che resta la casa madre ma che ha ovviamente obiettivi circoscritti. Per Cesare ci vorrebbe l’estero: un club spagnolo o portoghese, magari, più che inglese, dove impostare e insegnare bel gioco. O, Dio volesse, persino una nazionale, magari la Roja, che proprio in questi giorni sta cercando un nuovo allenatore, per ripercorrere magari le orme di quell’Andrea Anastasi che da spernacchiato c.t. dell’Italvolley andò a prendersi un oro europeo con una Spagna che nei pronostici partiva dalle retrovie.
Corriamo tanto con la fantasia, ce ne rendiamo conto, ma qui si tratta di riparare a un torto. Prandelli è uno che ha provato a reimpostare la Nazionale, a farla uscire dal proprio terreno per portarla a valicare praterie inesplorate. Gli è andata male, peccato, avesse vinto sarebbe stato incensato e osannato alla stregua di Sacchi. Ma a tal proposito, disse una volta un amico, uno che se ne intende molto più di chi scrive: “Non ho mai visto una squadra coprire il campo in ampiezza come l’Italia del 2012, quella era rivoluzionaria”. Non tutte le rivoluzioni riescono col buco. Ma ciò non le rende meno significative.

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