Balla mia Esmeralda


“É una storia che ha per luogo, Parigi nell’anno del Signore 1482” e che oggi, pur se nella frenesia di computer e metropolitane, non ne vuole sapere di godere le gioie di una più che meritata pensione.

Da quando, nel 1831, Notre Dame de Paris viene dato alle stampe, consegnando Victor Hugo all’olimpo della letteratura, la sua fortuna non ha fatto che accendersi di luce nuova a ogni mutar di secolo. Fiumi d’inchiostro, dipinti, disegni animati e pellicole cinematografiche si sono lasciati stregare dal dramma della bella Esmeralda, di Febo, l’incostante capitano che le ruba il cuore, di Frollo e dell’intero popolo di una Parigi tanto immaginifica quanto reale, nelle cui strade si intrecciano amori e destini, povertà e opulenza sfacciata.

E ancor più dibattuta è la figura del campanaro Quasimodo, che per tutta la giovinezza fa di Notre Dame prigione e rifugio, per celare al mondo la propria deformità, così disgraziatamente in conflitto con la rettitudine e la bontà d’animo. Insieme alla carta e al cinema il romanzo di Hugo si è impadronito anche del palcoscenico e, dal calderone di riflessioni secolari, è nata un’opera moderna che da più di un decennio riempie i teatri e fa tremare gli stadi.

In seguito al debutto parigino del 1998, lo spettacolo di Riccardo Cocciante e Luc Plamondon, ha girato l’Europa e attraversato l’Oceano fino agli Stati Uniti, senza mai fallire. In Italia, per la prima del 2002, Notre Dame de Paris sceglie di elevare le proprie torri in uno dei templi del teatro e della musica del nostro paese: l’Arena di Verona. Qui costruisce, stagione dopo stagione, l’entusiasmo del pubblico, in un crescendo di lacrime e applausi, che non mancherà nel grande ritorno di quest’anno. Da marzo infatti l’ormai celebre musical ha ripreso il proprio tour con il cast originale al completo, ripercorrendo alcune tappe tradizionali e conquistandone di nuove. Una strada appena imboccata, eppure già lastricata di sold-out.

Ma cosa amiamo del romanzo di Hugo? Quale meccanismo ci tiene legati a una storia che distrugge ogni speranza, consuma corpo e anima e condanna giusti e malvagi all’oblio della morte? In fondo non vi è appagamento alcuno nell’assistere al pianto disperato di Quasimodo, che dopo aver perso una lotta impari contro il capitano Febo e aver inseguito la sua Esmeralda fino alla morte, ne stringe il corpo esanime e con esso si lascia morire. Non vi è gioia nelle nozze di Febo, tanto amato, eppure condannato all’infelicità accanto a una compagna che non desidera. E non si trova conforto neppure nella morte di Frollo, crudele sì, ma pur sempre vittima di una passione così estrema da condurlo a rinnegare una vita di sapere e castità in favore della follia. Perché allora? Perché lo amiamo tanto?

Forse la soluzione consiste proprio nel non saper e nel non poter trovare risposte. Non vi è logica in questo racconto umano fino ai limiti della sopportazione, una storia che mette a nudo la natura del nostro essere, lo spoglia con violenza e ne scruta i meandri più bui e tormentati. Amore, passione, odio, Fede, ingiustizia, povertà, coraggio, viltà… Hugo non dimentica nessuno, non risparmia nessuno. Si fa scienziato dell’uomo, studiandone i contorni e i contenuti. Tuttavia è anch’egli un uomo e ciò lo costringe presto a rigettare il distacco della scienza per l’intimità della letteratura.

Notre Dame de Paris invero non è una storia. O perlomeno non è soltanto una storia. E’ un’esperienza di vita, un’operazione di scavo nel sentire umano che indaga e lacera, ricompone e crea. Notre Dame de Paris non può essere letto, esige di essere vissuto.

Nell’opera di Cocciante i fili del racconto vengono affidati al poeta Gringoire (Matteo Setti nel cast originale italiano), che spalanca il sipario con “Il tempo delle cattedrali”. Poco più di tre minuti nei quali è ritratta l’ombra di un tempo lontano, che vede l’imponenza delle cattedrali barcollare sotto il peso di un mondo nuovo che vuole e deve mutare. Tema, questo, ripreso con ancor maggiore enfasi in “Parlami di Firenze”, che apre il secondo atto, e ricalca il dialogo descritto da Hugo tra Gringoire e Frollo (Vittorio Matteucci), una danza tra religione e poesia, sotto l’egida di una cultura che si appresta a cambiare pur se nella reticenza dei suoi custodi. “Con le presse a Norimberga” Gutenberg “sta cambiando l’avvenire” e la stampa ucciderà l’architettura, il grande verrà inghiottito dal piccolo, in una metafora che travolge i personaggi stessi, prede di una fatalità che tutto divora.

Memorabili alcuni brani dedicati a Esmeralda (Lola Ponce) : “Zingara”, canzone con la quale la giovane irrompe sulla scena, in tutto il suo fascino misterioso e straniero, e “Bella” che armonizza le voci dissonanti di tre amori tormentati e rivali. Frollo, Quasimodo (Gio Di Tonno) e Febo (Graziano Galatone) ammaliati dalla zingara, la ritraggono come l’essenza della bellezza, una venere in terra che brucia la casta tonaca del primo, consola le pene del secondo e infonde il dubbio nel capitano ormai pronto alle nozze.

Il dramma violento dell’arcidiacono si dispiega lungo l’intera opera, e da monologo interiore giunge alla crudele dichiarazione d’amore che pone Esmeralda di fronte a un atroce bivio: una passione odiosa o la forca. Frollo assiste impotente, ma consapevole, alla propria distruzione fin dal giorno in cui, scorgendo la giovane gitana danzare, avverte per la prima volta il peso del proprio santo uffizio. Perfino nel compiersi del suo disegno, Frollo è un vinto, mai un vincitore.

“Io cado in te, tentazione  e tutto al diavolo va la scienza e la religione, e virtù e castità. Io guardo un orlo di gonna e vedo abissi di donna, la gonna gira e mai, mai per me la toglierai. Mi distruggerai, mi distruggerai. E maledico te perché di te non vivo. Mi distruggerai, mi distruggerai.”

E mentre Claude Frollo rinnega la virtù di un’intera vita, Quasimodo si schiude a un mondo che fin dalla nascita lo ha rifiutato e respinto; con una delicatezza estranea alla deformità del suo corpo, il giovane campanaro dischiude un animo generoso, che tuttavia deve fronteggiare l’ingiustizia della propria natura. Sinceramente innamorato di Esmeralda, non può competere con il capitano Febo, il cui nome è esso stesso un richiamo allo splendore del sole.

“Dio ma quanto è ingiusto il mondo, bello in lui e brutto in me. Io la luna te la prendo, ma non strappo amore a te. […] Con la mia bruttezza insulto la bellezza tua insolente, la natura sbagliò tutto, mi ha fatto male, mi ha dimenticato. […] anche a noi, stracci della terra, la vita piacerebbe bella. Ma da quale parte è Dio, se ne sta con gli ostensori o qui dove lo prego io, dal mattino fino a sera. Gesù Cristo che adoriamo, quali figli preferì i re Magi e il loro oro, o noi che strisciamo qui. Dio com’è crudele un mondo che non sa legare i cuori. Sono brutto e tu sei bella. E mai mi amerai, mai.”

Nell’affollato mondo di uomini plasmato da Hugo, alla quieta indifferenza di Gringoire, si alternano la bellezza vuota e spietata di Febo, la crescita di Quasimodo, sospeso tra un rifugio che è protezione ma anche annullamento del sé (ha senso vivere tra muri di pietra, mutando in pietra il proprio cuore?), la follia del suo protettore Frollo e la resistenza cocciuta di Clopin, pronto a sacrificare se stesso pur di garantire libertà e uguaglianza alla sua corte di sans papiers.

Sul palcoscenico due sole protagoniste femminili: Fiordaliso, promessa a Febo e decisa a estirparne la passione per la zingara, unica minaccia per una tranquilla felicità matrimoniale, ed Esmeralda, innocente e pura nella sensualità della sua giovinezza. Non una strega o una tentatrice, ma una fanciulla ingenua che barcolla tra le insidie di una società avvelenata.

Supportato da un canovaccio che non ha eguali, lo spettacolo teatrale si veste di un fascino nuovo attraverso i virtuosismi coreografici, che prendono vita grazie a un corposo gruppo di ballerini e acrobati provenienti da tutto il mondo. E con loro, incorniciati da una scenografia essenziale ma fortemente evocativa, i sette protagonisti portano alla vita le pagine di Hugo con la magia della musica. Una musica che ha compreso e ha vissuto. Perché unicamente questo la rende capace di raccontare.

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