Apologia di Mario Balotelli


Chi ha paura di Balotelli? Tutti, perché la fama guadagnata di uomo spacca – spogliatoi, di indolente, di ragazzaccio, di testa calda, di piantagrane, di viziato e compagnia cantante (e contante, dato il procuratore…) ha fatto ritrarre qualsiasi possibile acquirente, al punto che stato difficilissimo per lui trovare squadra dopo essere stato scaricato dal Liverpool. E anche quando trovata, è stato un ritorno osteggiato e criticato. A questo punto uno dovrebbe aggiungere “come è giusto che sia”. Solo che giusto non lo è. Neanche un po’.
Il Balo dentro
Sgombriamo subito il campo: Balotelli riscuote la mia simpatia. È un ragazzo talvolta solare, talvolta arrabbiato, talvolta disponibile e talvolta indisponente. Ma è un ragazzo, come me. Ho persino due mesi più di lui, solo che mentre io iniziavo l’università e pensavo alla stagione NBA chiedendomi se davvero la finale già scritta fosse Lakers – Heat (stagione 2010/2011), beh, lui era additato dai media del nostro paese come “il futuro della nostra nazionale”, “il ragazzo prodigio” e finanche “il simbolo di integrazione degli stranieri in Italia”. Non so voi, ma a me avrebbe francamente fatto tremare tutto ciò. E non cadete nella trappola del “Che c’entra, tanto chi è abituato alla pressione mediatica è lui e non sei tu”. Sì, vero, chi era sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori da almeno due anni era lui, chi aveva litigato con Mourinho era lui, chi aveva ingaggiato come intermediario Mino Raiola era lui. Io, no, io sognavo ancora Bryant ed esultavo all’arrivo di David Blatt sulla panchina del Maccabi Tel – Aviv. Ciò non vuol dire, però, a maggior ragione a quattro anni di distanza e con molto più sale in zucca rispetto all’epoca, io non capisca ciò che comporta questa etichetta. Che è, di fatto, pesantissima. Un macigno. Ora, a parte la discutibile scelta di innalzare a modelli di vita sociale gente che nella vita fa altro (cantanti, attori, sportivi) mi spiegate perché uno dovrebbe accettare un ruolo del genere? Perché uno sano di mente non dovrebbe prendere il microfono e dire “Io questo compito non lo voglio, non sono pagato per fare quello, lasciatemi ai miei vent’anni compiuti da poco”? E Mario credo che ci abbia provato, ma onestamente quanti gli hanno dato retta? E quanti, viceversa, hanno sorvolato per interessi vari ed eventuali?
Il problema, con i giornali(sti) italiani, è proprio questo. Si cerca di vendere fumo (non pensate male…) facendolo passare per arrosto, ed ecco che la questione dell’integrazione degli stranieri è risolvibile con due colpi di genio in campo di Balotelli. Stessa operazione fatta con la nazionale tedesca di Löw arrivata terza ai Mondiali (tengo sempre come riferimento il 2010) con Khedira, Özil, Boateng, ricamata dai media nostrani come la rappresentazione della Germania “come paese multiculturale che integra”, quando io ancora devo capire cosa c’entra il gioco del pallone con il multiculturalismo, che resta una risorsa sacrosanta e una fonte inesauribile di opportunità di confronto. Poi sì, magari c’è anche la cultura di mezzo, quali strumenti ho io per negarlo, ma insomma, non verrete mica a dirmi Löw che avrebbe chiamato i tre sopracitati per far piacere alla Merkel se fossero stati dei broccacci? Proprio qui, secondo me, sta il cuore del problema: distinguere la prosa dalla poesia, o se preferite la cronaca dall’epica.

Balo coi lupi
Tornando a Balotelli, può essere discusso per come fa il suo lavoro, ovvero per come si allena e per come gioca, può essere discusso per quanto guadagna (ma il punto è anche chi ha portato gli stipendi dei calciatori a lievitare a tali cifre) ma evitiamo di dipingerlo come un simbolo quando fa bene e come un ragazzo viziato quando fa male. Sì, d’accordo, le sue asinate le ha fatte ma insomma, a me personalmente è capitato di conoscere un paio di soggetti che facevano impallidire il suo testare la scacciacani sul balcone di casa o il suo farsi la fiancata dell’auto contro marciapiedi e/o lampioni (è un’esagerazione, non ricordo se sia successo davvero, serve a rendere più vivido il concetto. Un paio di giorni fa è stato il colmo (uno dei tanti, a dirla tutta), quando a uno sfogo su Twitter riguardante non aver mai trovato il vero amore ha fatto seguito un coro di voci francamente inutile, che lo esortava chi ad andare da uno psicologo, chi a rivolgersi un tutor. Per un disagio personale che tutti, chi prima chi dopo hanno provato, senza per questo sentirsi dire che per risolvere il loro problema c’era bisogno di un pull di specialisti. O, anche sempre per restare al passato recente, le sghignazzate (anche digitali) che si è guadagnato quando alla domanda “Tornare al Milan è come tornare a casa?” e lui ha risposto “La mia casa è Brescia”.
Io l’ho capita quella frase, e vi posso assicurare che non c’era nulla di divertente. Sottolineava infatti un sentirsi a casa solo nel luogo dove è cresciuto, dove gli vogliono bene a prescindere e non sono coi fucili, e i teleobiettivi, puntati ad ogni nuova tappa. Dove non deve essere per forza simbolo, ma dove lui è semplicemente l’uomo, in barba a quella orripilante etichetta di Peter Pan che gli è stata cucita addosso. Quella in nome del quale, per dire, due veterani della nazionale come Buffon e De Rossi hanno avuto l’impudenza di puntare il dito contro i nuovi che non si erano integrati (quindi lui in prima fila, da quanto si è capito) immediatamente dopo la disfatta con l’Uruguay che ha sancito l’uscita anticipata dai Mondiali 2014 dell’Italia. E non uno dei giornalisti che abbia chiesto lumi ai due fenomeni, accodandosi tutti a dare addosso chi a Balo, chi a Prandelli, chi ad Abete, chi al sistema (come se lo scoprissimo oggi che è da rifondare, e come se fosse bastato un torneo di cinque settimane a dimostrare il contrario, nel caso avessimo raggiunto almeno i quarti). Non ricordo di qualcuno che abbia detto “Scusate ma voi dov’eravate? Perché non ci avete messo la faccia? Perché eravate tutti buoni e belli dopo il 2006, il 2012 o il 2013, ma quando avete fallito la colpa era degli altri?”. Solito scaricabarile all’italiana.

Luci a San Siro
In sostanza, qual è l’opinione su Balotelli? Di persona ovviamente non si può dire conoscendolo, ma quello che appare (ma l’apparenza inganna) dai social network sembra disegnare un Balo limpido, che non nasconde né i propri malumori né la propria soddisfazione, impegnato forse a trovare la propria dimensione nel mondo o forse a combattere a pugni chiusi contro quello stesso mondo che gli cuce addosso un vestito che a lui non piace. Professionalmente, sembra uno di quei talenti altalenanti, che ha tutte le qualità per esplodere ma che viene sempre riportato indietro da una risacca dalla discontinuità, di quelli che si aspettano sempre e che forse (forse) non la trovano mai o forse (forse) la trovano quando ormai nessuno ci crede più. Non è un dramma, non muore nessuno se i calciatori non segnano due goal a partita, anche perché comunque la regolarità dipende dalla maturazione, e la maturazione (ci insegnano i genitori) arriva per tutti con i tempi adeguati, a seconda di ciascuno, e questo vale anche se fai il calciatore e ci si aspetta che tu ti prenda sulle spalle i destini di una nazionale calcistica, anche se in Italia il calcio resta malauguratamente più che uno sport. E allora aspettiamo Balo, che finalmente al Milan con Sinisa non sarà più sotto l’occhio di bue alla Scala del calcio, e forse (forse) potrà finalmente mostrare che per lui si esagera, in un senso o in un altro.

1 comment

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  1. Fabio Pirola

    Tutta l’attenzione rivolta a Balotelli dimostra anche un’altra cosa, e cioè che il calcio italiano si è ridotto a tali livelli di povertà tecnica, da costringerci ad investire del ruolo di suo salvatore il primo ragazzo che mostri qualche accenno di capacità sopra la media. Negli anni ’90 c’erano molti più Balotelli in Italia, e dunque non c’era bisogno di incensare un singolo, caricandolo di responsabilità che non può sostenere da solo.

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