Parlare Civile: l’importanza di un linguaggio corretto nel giornalismo – Intervista a Stefano Trasatti
« Il linguaggio è la veste del pensiero. »
(Samuel Johnson, 1779)
Accorgersi di quanto potere siano dotate le parole e di come esse siano in grado di influenzare il pensiero è tanto affascinante quanto sconcertante. La parola è lo strumento sociale per eccellenza, che avvicina le persone e permette loro di costruire relazioni. Le parole possono essere finestre: attraverso un loro uso corretto è possibile contrastare le discriminazioni e spezzare i pregiudizi. Ma le parole possono essere anche muri: farne un uso scorretto o superficiale può compromettere il lungo processo di inclusione sociale e contribuire al rafforzamento di preconcetti offensivi.
Parlare Civile – comunicare senza discriminare è un libro pubblicato nell’aprile 2013 da Redattore Sociale, agenzia di stampa quotidiana fondata dal giornalista Stefano Trasatti nel 2001 e edita dalla Comunità di Capodarco di Fermo. Il libro si presenta come una sorta di “glossario” di termini usati e abusati dagli operatori della comunicazione, presentando la definizione, l’uso e il riferimento ai dati statistici di ogni singola espressione e introducendo con esempi (anonimi) di casi giornalistici. Quando possibile vengono fornite delle alternative valide, mentre spesso queste ultime sono ancora in via di definizione.
Nel linguaggio dei media non è raro trovare espressioni come “disabile”, “delitto passionale”, “badante”, “clandestino”: questi termini non sono sbagliati, ma spesso è sbagliato l’uso che ne viene fatto – la quarta di copertina del libro recita “Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole”. Le stesse parole, inserite in contesti diversi, possono essere appropriate, fuorvianti o addirittura offensive.
Per contrastare questo uso superficiale del linguaggio da parte dei media è necessaria una riflessione attenta sull’uso di certe parole. La scelta di un lessico che si preoccupi dei diritti delle minoranze è fondamentale: le parole danno forma alla realtà, e utilizzare parole sbagliate significa contribuire alla costruzione di idee e politiche altrettanto sbagliate.
Nel giornalismo – soprattutto in quello sociale, che si occupa delle minoranze e dei loro problemi – è di fondamentale importanza fare un uso corretto delle parole: è proprio a partire da questo settore del giornalismo che è possibile combattere ogni forma di razzismo costruendo una nuova cultura. “Chi scrive di sociale non può essere razzista”, dice don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco durante l’ultimo seminario di Redattore Sociale. Denunciare un linguaggio scorretto è un modo per opporsi al radicamento nella nostra società di una cultura discriminatoria ed escludente.
Ma utilizzare un linguaggio politically correct significa anche evitare l’imposizione di una linea ideologica rigida che proibisca l’uso di certe parole, rischiando di sfociare nel buonismo e nell’ipocrisia: è scorretto, ad esempio, caricare di eroismo e di eccezionalità situazioni disagevoli come la disabilità, tramite la creazione di espressioni come “diversamente abili” che tendono solo a confondere e a disorientare.
“Se i giornalisti frequentassero di più certi mondi, non avremmo le categorie ma le persone”, prosegue Albanesi. Soltanto frequentando e analizzando le realtà di cui si vuole raccontare è possibile infatti divenirne narratori partecipi e precisi.
Se vogliamo lasciarci alle spalle gli stereotipi dobbiamo necessariamente passare per una fase di ripulitura del lessico. È un processo che richiederà tempo, ma scegliere di approfondire il proprio linguaggio è una scelta che dovrebbe riguardare tutti, non solo gli operatori della comunicazione. Il linguaggio riflette la cultura e la civiltà del proprio popolo: per questo parlare correttamente – riflettendo sulla scelta delle parole – non è solo utile, ma necessario, perché la corretta definizione della realtà che ci circonda è una responsabilità collettiva. Con una brillante metafora di Giuseppe Faso:
“Ci sono persone che raccomandano ai figli di non toccare troppo le banconote, per i percorsi poco igienici che possono aver subito, ma sembrano in minor numero coloro che sono convinti che l’uso delle parole è fortemente segnato dal consumo che se ne fa, che ne può risultare contagiata l’anima, e che abbiamo la responsabilità della circolazione di parole cariche di effetti negativi.” (Faso 2008, p. 32)
“Le parole sono azioni”, diceva il filosofo e logico austriaco Ludwig Wittgenstein; e a parole corrette, non possono che corrispondere azioni corrette.
Intervista a Stefano Trasatti
Stefano Trasatti è giornalista professionista dal 1992, ha lavorato in diverse testate marchigiane e per circa 8 anni è stato segretario del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. Nel 2001 ha fondato l’agenzia di stampa quotidiana Redattore Sociale, edita dalla Comunità di Capodarco di Fermo. Dal 2006 è inoltre direttore editoriale di Superabile, il sito web nazionale sulla disabilità promosso dall’Inail.
Perché ha deciso di dedicare un manuale agli operatori della comunicazione?
Abbiamo rilevato da tempo un problema: che troppo spesso, su alcuni temi delicati, sono utilizzate parole in contesti o in modi inadeguati, offensivi, discriminatori e razzisti, quasi sempre inconsapevolmente. Parole che sono magari giuste in contesti privati o usate tra persone che riescono a decifrare quel “codice”. E questo è un problema, perché ogni parola porta con sé conseguenze, soprattutto quando è usata da comunicatori di media e politica, cioè consolida atteggiamenti e opinioni. Questa cosa è maturata più o meno nel 2009, quando come agenzia abbiamo fatto una scelta pubblica forte: non avremmo più usato la parola clandestino nei nostri notiziari, perché in quel momento ci trovavamo in un contesto storico in cui – in seguito a misure come l’introduzione del reato di clandestinità e il “pacchetto sicurezza” – la politica aveva condizionato talmente tanto il linguaggio dei media che si era arrivati a un punto in cui immigrato era uguale a clandestino, clandestino a delinquente, ergo immigrato uguale a delinquente.
È capitata così l’occasione di poter presentare questo progetto, grazie anche al supporto economico della Open Society Foundation. Il lavoro è durato più di un anno grazie alla ricerca approfondita di tre persone [Raffaella Cosentino, Federica Dolente, Giorgia Serughetti, NdA], e in autunno uscirà un sito che amplierà il lavoro già svolto.
Redattore Sociale è stato fondato nel 2001: cosa è cambiato in questi 12 anni nel linguaggio utilizzato dai giornalisti per affrontare le tematiche del sociale? C’è stata un’evoluzione?
Sicuramente. La parola “clandestino”, ad esempio, oggi si usa sempre meno (tranne in alcuni giornali, locali o di destra) grazie ad alcune grandi testate che hanno fatto da esempio. Anche per le parole “nomadi” e “zingari” si comincia a capire che esse sono offensive, rifiutate dalle popolazioni o inadeguate, visto che gli zingari non esistono. La parola “handicappato” si usava con leggerezza quando abbiamo iniziato, ora ci stiamo molto più attenti. C’è stata un’evoluzione positiva grazie anche a varie iniziative sia all’interno che all’esterno delle rappresentanze dei giornalisti. Si è fatta avanti una consapevolezza di questo tema, che prima era considerato quasi un disturbo, un intralcio al lavoro dei comunicatori; c’era il terrore del “adesso mi impongono il politically correct”: questa “resistenza” ha cominciato ad abbassarsi. Questo non significa che la situazione oggi sia ottimale: siamo ancora molto indietro rispetto, ad esempio, al Nord Europa.
La parola “evoluzione” è la parola chiave, perché il linguaggio stesso è in continua evoluzione: questo libro tra 5 anni probabilmente sarà da rifare perché sarà ormai inadeguato, si saranno consolidate parole nuove. L’importante è non fermarsi mai e avere questa consapevolezza “nelle corde”, come elemento costitutivo della professione.
Durante l’ultimo seminario di Redattore Civile Paolo Butturini, segretario dell’associazione Stampa Romana, ha detto che i giornalisti sono in crisi anche perché non riescono a narrare la società. Secondo lei a cosa è dovuta questa crisi?
Questa crisi ha a che fare con una debolezza che i giornalisti italiani si sono coltivati negli anni. L’Italia – contrariamente alla maggior parte dei paesi più avanzati – ha una forte anomalia, ossia il giornalismo lavora a rimorchio della politica, e non viceversa: l’agenda delle notizie spesso è fatto su un input della politica, e quando è così è chiaro che si ha una forma di “sudditanza”. Se l’agenda delle notizie da trattare è dettata dal palazzo, chi sta dentro al palazzo al contatto con la politica è il nucleo del giornalismo, e come si fa a raccontare la realtà da dentro il palazzo?
Inoltre c’è un altro motivo, più pratico. Oggi, chi decide come fare i giornali è chi sta dentro le redazioni, un nucleo sempre più ristretto di giornalisti di età avanzata che gerarchizza il lavoro dei giornalisti, sottopagati, che stanno fuori: c’è quindi uno scollamento tra chi sta fuori e fornisce contenuti e chi sta dentro e non conosce la realtà, mentre prima c’era una rotazione, perché le redazioni erano piuttosto fornite.
Lei ha detto che non bisogna essere integralisti, ma consci dei limiti del linguaggio. Come si può far fronte a questi limiti?
È necessario avere un po’ più di disponibilità e di umiltà, e non considerare questa faccenda del linguaggio come un intralcio. Lo sforzo che abbiamo fatto con questo libro è di evidenziare cosa ci sia dietro a certe parole, ossia storie, dati, evoluzioni, etimologie, per cercare di far capire che il linguaggio è una cosa molto seria e tale andrebbe considerato durante la scrittura di un articolo, al pari di numeri, dati e fatti. Deve esserci una naturale consapevolezza del linguaggio, in modo che prima di usare un’etichetta, prima di dire la nazionalità di una persona quando questa non è rilevante, si rifletta un po’ di più. All’inizio si fa fatica, è chiaro, ma poi dovrebbe venire naturale, dovrebbe far parte del bagaglio di attrezzi di ogni comunicatore.
Non bisogna però essere dei pasdaran: io ho paura del politically correct, e l’espressione che esemplifica questo problema è “diversamente abile”. È una parola orrenda ma che va per la maggiore a livello istituzionale, politico e a volte addirittura associativo; un termine ipocrita, rifiutato e sbeffeggiato da tutto il mondo della disabilità, frutto di un politically correct che è solo conformità e ipocrisia. Bisogna evitare questo rischio, a costo di commettere qualche errore.
L’atteggiamento dovrebbe essere di disponibilità: per la realizzazione di questo libro abbiamo ascoltato diversi rappresentanti delle realtà interessate. Per il linguaggio, l’ascolto è fondamentale.
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