Crescita economica: un concetto davvero fondamentale?


Di fronte alla massa di disordinati ed insistiti riferimenti alla crescita economica proposti in questi giorni da telegiornali, quotidiani ed opinionisti, sorge spontaneo un quesito: per quale motivo essa viene considerata con cotanta riverenza?

Per un paese, “crescere” in senso economico significa soprattutto aumentare il proprio prodotto interno lordo, ossia la produzione aggregata dei soggetti economici, privati e pubblici, ascrivibili al contesto nazionale. Affermare che nel primo trimestre del 2012 la Germania è cresciuta del 0,5%  significa dire che, in termini monetari, la produzione delle aziende tedesche (in senso lato) è aumentata dello 0,5%. Il fatto che la crescita del “Belpaese” si sia arrestata, dunque, comporta che la produzione delle industrie italiane sia sostanzialmente invariata rispetto a quella degli anni precedenti.

Dove si cela il dramma? Chi appartiene ad una società di origini contadine come la nostra, non più di due generazioni or sono si confrontava regolarmente con imprevisti quali scarsi raccolti, carestie, epidemie del bestiame o simili, fattori che facilmente potevano rendere un’annata terribilmente peggiore della precedente. Per quali motivi, dunque, oggi, a livello macroeconomico, si presta così tanta attenzione anche ai piccoli scostamenti percentuali della produzione?

Naturalmente le risposte a questa domanda sono molte e complesse, ed esulano dallo scopo della presente riflessione, la quale invece mira a porre in evidenza il legame fra il concetto di crescita e le difficoltà cha sia il nostro paese che l’eurozona stanno affrontando.

In breve, l’aumento del PIL di un paese debitore è una buona garanzia della solvibilità dello stesso: nel momento in cui l’economia di un paese (insieme, di riflesso, al gettito fiscale) cresce ad un tasso superiore al costo del debito, il rapporto fra il debito stesso ed il PIL è destinato a migliorare. Di contro, se l’economia è ferma o cresce con un ritmo eccessivamente flebile, il rapporto debito/PIL, in ipotesi di bilancio statale in pareggio, è destinato a crescere. Per questo, i creditori, dubbiosi sulla effettiva solvibilità del paese, potrebbero preferire vendere i titoli del debito pubblico (per conseguire un rimborso immediato),  facendone così scendere il prezzo (per la basilare legge della domanda-offerta) e aumentandone di conseguenza il rendimento (ciò che viene misurato dal “termometro” dello spread).

Trovandosi l’Italia in una situazione di stagnazione, l’unica ipotesi plausibile per evitare un  aumento incontrollato del debito pubblico pare essere conseguire un surplus di bilancio pubblico. Ciò potrebbe avere benefici sia sull’affidabilità percepita del paese (con un calo dei rendimenti) che sull’entità del debito stesso. Le misure prese finora dal governo Monti sembrano andare proprio in questa direzione.

Tuttavia, i fatti di queste settimane sembrano non confermare tali visione: i rendimenti dei titoli italiani a lungo termine restano superiori al 5%, un livello decisamente troppo elevato per titoli che normalmente si attestano intorno al 2% annuo. Per questo, svariati opinionisti e “tecnici” ritengono che sia proprio la mancata crescita ad influenzare in negativo la (altrettanto mancante) fiducia dei mercati: le politiche di austerity spesso e volentieri hanno effetti negativi sull’economia, come insegna la teoria classica e come diverse ricerche empiriche hanno, anche di recente, mostrato: più evidente sembra essere invece l’aumento del debito pubblico causato dalla crisi. (1, 2 e 3)

D’altra parte, basta ascoltare un telegiornale (o meglio scambiare qualche parola con un imprenditore) in questi giorni per rendersi conto di come nel nostro paese la recessione sia una realtà “tangibile”. Sembra quindi razionale attendersi un peggioramento del rapporto debito/PIL, considerando che, in ogni caso, prima del 2013 non verrà raggiunto il pareggio di bilancio: il costo del debito continua quindi a rimanere estremamente elevato, comportando una abnorme spesa per interessi: 1900 mld di €, che ci “costano” fra il 2 ed il 5% all’anno, comportano uno “spreco” di denaro dei contribuenti di circa 40-50 miliardi di €.

Al recente g8 di Camp David, fra i leader dei maggiori paesi industrializzati sono emersi diversi contrasti proprio sul sentiero da seguire per porre fine alla difficoltà dei paesi dell’Europa continentale: se Stati Uniti e Francia enfatizzano la necessità di implementare fin da subito manovre che diano ossigeno all’economia, confidando in una riduzione del debito nel medio-lungo termine, la Germania resta saldamente ancorata su posizioni più rigoriste, considerando come imprescindibile, per concedere ad essi ulteriore sostegno economico, la condizione che i paesi in difficoltà riprendano il “pieno controllo” delle finanze statali.

Il premier italiano Monti ha svolto il ruolo di “mediatore” fra tali posizioni, promuovendo da un lato, come molti di noi stanno dolorosamente sperimentando, riforme improntate al rigore e alla stabilità e sostenendo dall’altro politiche che potrebbero dare respiro ai paesi in crisi, quali la “golden rule” sugli investimenti pubblici o i “project bonds”. Ad ogni modo, sembra evidente che, se si vuole evitare il collasso di diversi sistemi statali, primo fra tutti quello greco, si rende necessario, oltre alle sopracitate manovre, intervenire con altri mezzi, ad esempio attraverso la politica monetaria della BCE, come, fra gli altri, Tabellini sosteneva mercoledì sul Sole24Ore.

Ad ogni modo,le difficoltà di questi mesi hanno avuto il merito di portare con decisione agli occhi dell’opinione pubblica italiana sia diversi ed insostenibili sprechi di denaro pubblico che la problematica dell’evasione fiscale, facendo sì che si iniziasse agire verso la soluzione di tali problematiche. La cosiddetta “Spending Review” non può però risolvere ogni problema: il modello di stato sociale italiano infatti non consentirebbe, anche nella migliore delle ipotesi, una spesa significativamente inferiore a quella odierna: essa è, di fatti, in linea con gli altri stati europei –in generale caratterizzati da un modello imponente di stato sociale– fatto confermato anche in questo caso da dati empirici (1 e 2). Ciò che invece si può e si deve significativamente migliorare è la qualità dei servizi pubblici offerti, di pari passo con l’equità e la sostenibilità della tassazione.

La crisi, d’altra parte, può divenire una importante occasione per riflettere sul paradigma stesso della crescita del PIL: in un altro articolo ho posto in evidenza quali siano le mancanze di una misurazione della condizione umana legata esclusivamente a tale indicatore, oltre ad alcune delle alternative proposte in merito. Come abbiamo visto, la congiuntura attuale renderebbe la crescita un vero toccasana per il nostro bilancio statale, ma è necessario prestare attenzione a non imputare tutte le problematiche (non solo finanziarie, ma anche sociali) alla stagnazione del PIL. Essa può infatti essere il riflesso di tensioni e difficoltà più profonde, la cui soluzione non è legata esclusivamente a misure “tecniche” quali liberalizzazioni o deregolamentazioni; inoltre, la crescita indiscriminata della produzione potrebbe non essere sostenibile senza le dovute precauzioni. Infine, non varrebbe forse la pena per i paesi più sviluppati di prestare maggiore attenzione al progresso sociale interno e alle sempre più pressanti problematiche sovranazionali?

6 Comments

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  1. Francesco Campana

    Complimenti Leo! anche sul mensile del sole24ore ci si pone questa domanda. Attorno a questa ruota il futuro del pianeta…

  2. Leonardo Nini

    Grazie Campa!
    Di recente anche l’università Bocconi ha organizzato una conferenza riguardo a tale argomento; conferenza alla quale ha peraltro presenziato il premio nobel Amartya Sen (che nell’occasione ho scoperto avere circa un centinaio di lauree) che, fra l’altro, ha criticato duramente il cieco affidamento dei politici europei alle agenzie di rating.

    Al di là dei contributi teorici che sono stati finora apportati, è però importante continuare ad interrogarsi su questo argomento e, magari, portarlo al centro del dibattito politico!

    Leo

  3. Filippo Galletti

    Ottimo articolo e grande capacità di analisi, sarebbe auspicabile che anche sui maggiori quotidiani ci si ponesse questi interrogativi invece di dare sempre voce al “pensiero unico”.

  4. Nico

    Mi associo ai complimenti per la bella analisi. Se da una parte è vero che la discussione sul concetto della necessità di “crescita economica” sia spesso portata alla luce, è anche vero che personalmente fatico a trovare una via uscita che porti una soluzione al problema: si tratterebbe di cambiare radicalmente il sistema economico della parte di mondo “che produce” (come noi lo intendiamo). Chi potrebbe farlo? Cosa può uno Stato da solo?
    Rimane poi aperto il problema di chi muove i fili del mondo finanziario, spesso sempre più lontano dall’economia reale fatta di persone e merci: può esistere una finanza “sana”? Se sì quali le strategie per arrivarci?
    E in tutto questo gioco di soldi reali e soldi virtuali, necessità di crescita,… come entra in gioco la sostenibilità ambientale? come entrano in gioco i rapporti con le nazioni emergenti (con annessi problemi di diritti dei lavoratori ad esempio)? come entrano in gioco gli Stati “poveri” fuori da questi giochi di “mercato”?

  5. Leonardo Nini

    Caro Nico, ti ringrazio per il complimento!
    senza dubbio tutti questi interrogativi sono di difficile soluzione.. anche prevedendo soluzioni efficaci in linea teorica, non è detto che chi di dovere sia disposto a metterle in pratica, nè che le cose vadano effettivamente come previsto.

    Credo però che sia importante quanto meno iniziare a pensare ad un progetto di medio-lungo termine; non mi sto riferendo a investimenti, ricerca o quant’altro (che, come spesso si dice, dovrebbero produrre più “crescita” nal lungo andare), ma al futuro dell’umanità in generale. Senza dubbio, come appunto ho ricordato in un precedente articolo, ad un indicatore (o più) di benessere ne andrebbe affiancato uno di sostenibilità, che ci segnali quanto effettivamente stiamo mettendo alla prova il nostro pianeta.
    Ma ciò che rimane più importante, a mio parere, sarebbe ricercare un metodo per stimare l’effettivo benessere della popolazione, in modo da poter lavorare concretamente sulle variabili che lo influenzano (ad esempio, la coesione sociale): é forse garantito che continuare ad affannarsi per far crescere il PIL ci condurrà ad un futuro migliore (per tutti)?

    I problemi connessi al mondo finanziario poi sono moltissimi.. diversi ricercatori (ad esempio http://www.voxeu.org/index.php?q=node/7314) sostengono che il contributo del settore finanziario allo stesso PIL venga sovrastimato. Negli USA, alla vigilia della crisi, l’enorme “surplus” generato da banche di investimento ed altre società finanziarie aveva contribuito non poco a gonfiare la crescita del PIL, ponendo però allo stesso tempo le basi per il disatro che ne è conseguito.

    In uno scenario nel quale l’opinione pubblica sia maggiormente sensibilizzata su tali tematiche, si potrebbero creare le condizioni per far si che, in particolare, i politici non abbiano bisogno di promettere una indefinita crescita economica per farsi eleggere, ma possano puntare anche su altri tipi di miglioramento, tuttora non considerati.

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