Saluti da Saturno, cartoline da Valdazze: l’intervista a Mirco Mariani


Avete presente le cartoline, in particolare quelle divise in quattro quadranti, con la scritta «Saluti da…» fissata in un angolo e i colori brillanti?
Tanti di questi saluti illustrati ho scarabocchiato nella mia infanzia alle Balze di Verghereto, paesino collocato alle pendici del Monte Fumaiolo, nelle vicinanze della sorgente del Tevere, per lungo tempo considerato da svariati romagnoli località di villeggiatura estiva ideale per fuggire dall’afa rivierasca.

Una località più che mai familiare, come quella scritta che si incontrava lungo la strada per raggiungerla, quando cominciava a salire e le curve si facevano sempre più nausenti. Un gruppetto di lettere realizzato su muretti e superfici varie con la vernice, accompagnato da una freccia: “Valdazze”.
Non sapevo dove portasse, mai seguii l’indicazione, ma rimase sempre un senso di mistero attorno a quella fantomatica destinazione. Fino a quando un singolare individuo con il suo collettivo musicale non decise di dedicarle un disco.

Ed è proprio con “Valdazze”, secondo album di Saluti da Saturno, che torna a farsi viva la scritta; che non è semplicemente tale. Valdazze è un insieme di case, voluto nel 1964 dal cavalier Giorgetti perché diventasse “il villaggio del cantante”: una località turistica che avrebbe accolto tutti i maggiori artisti dell’epoca, in vacanza. Ora abbandonata.
Un sogno mai completatamente realizzato, sospeso nel tempo e ora intercettato da questo sorprendente disco, che si rivela un inaspettato viaggio nei ricordi, nella spensieratezza di estati calde e piovose, trascorse a innamorarsi di tutto, a ripetere le stesse escursioni montanare senza smettere di sorprendersi, a giocare divertendosi con poco.

Un disco in cui gli strumenti rari e dimenticati sono attori principali di un canovaccio imprevedibile.

E ora che Mirco Mariani e i suoi Saluti da Saturno stanno arrivando al Barrumba di Pinarella di Cervia (RA) per rendere dal vivo questa passeggiata onirica – all’interno del Lungomare Festival previsto per il prossimo 24 aprile, organizzato da Retro Pop in collaborazione con Queens, (Qualcosina)², Party’n Stazione e Monogawa Back to Gawa – quale occasione migliore per approfondire le questioni appena accennate direttamente con lui?
Ecco com’è andata.

 

Da balzerana adottiva quale sono stata, la scritta “Valdazze” mi è più che mai familiare, benché rimanga solo una scritta.
A te quali ricordi evoca?

Incontrai la scritta per la prima volta quando facevo conservatorio. Andavo in corriera da San Piero in Bagno a Cesena, e ogni curva della provinciale era tappezzata con questa scritta di vernice bianca, Valdazze, e la freccia.
Così mi sembrava che ogni strada portasse a Valdazze, non a Roma.
Quindi mi è sempre rimasta la curiosità di capire cosa fosse questo luogo, fino a quando finalmente ci andai a fare un’escursione con un amico, e mi rimase un profondo senso di vuoto. Un senso di nulla rimasto per tanti anni latente, poi tornato fuori. Ha avuto una vera e propria incubazione, in seguito alla quale si è scatenata una canzone, poi un disco.

 

Il disco ti è stato utile per colmare quel senso di vuoto?

Il vuoto non si colma mai. E l’importante è non colmarlo!
Bisogna lasciarlo sempre mezzo pieno, perché se lo riempi, non ti inventi più niente.

 

Quanto è stato importante per la stesura del disco aver visitato Valdazze?

Il ricordo di Valdazze che avevo, risalente alla prima volta che ci andai, era di un paese deserto: non c’era nessuno, nemmeno una persona. Benché gli abitanti siano quattro, quel giorno non c’era nessuno. E questo è stato fondamentale, perché ho svariati ricordi di quella passeggiata col mio amico, ma quello basilare era dell’aria che camminava da sola per le stradine, in mezzo alle case.

Lo spunto perciò fu l’idea dell’aria che camminava; quindi il conseguente senso di abbandono e di nulla, dal quale si poteva costruire tutto. Questa è stata un po’ l’ispirazione. Anche il lasciarsi dondolare e trovare divertimento dalle cose minime.

 

Ho visto con piacere le immagini scattate durante la gita di gruppo a Valdazze. Da quella scampagnata sarebbe dovuto scaturire il videoclip di una canzone?

Noi siamo partiti con l’idea e la volontà di fare semplicemente una gita.
Poi abbiamo incontrato la tv svizzera, che ha fatto un video di 7 minuti di ottimo livello; poi c’era Rocklab che ha pubblicato qualche giorno fa due o tre video sulla gita; c’erano pure una radio di Milano, una scrittrice, e due ragazzi che hanno ripreso tutta la gita. Io ho 12 ore di girato, ma non ho voluto estrarre un video.
Io non sono tipo da videoclip, a 40 anni. Anche se qualche idea c’era, ma con così tanto materiale già uscito se ne è perso un po’ il senso. Quindi tutte le ore di girato rimarranno lì. Magari verranno recuperate tra qualche anno.

 

Nella videointervista pubblicata su Rolling Stone presenti l’arsenale dei tuoi strumenti rari con una passione tangibile. La mia domanda su questo fronte è duplice. Parto da questa: siete soddisfatti della resa live del disco? Riuscite a riprodurlo fedelmente?

La resa live è migliore, perché io mi diverto di più a fare concerti piuttosto che fare il disco.
Anche se sono molto istintivo – caratteristica che mi ha accompagnato anche nella stesura di questo disco, durante la quale arrangiavo i brani da registrare il giorno stesso – il disco costringe a un certo rigore.
Perché il disco rimane, e non potevo fare il pazzo.

Invece dal vivo diamo sfogo alla nostra schizofrenia musicale, e riusciamo a essere imprevedibili. Addirittura a stupirci di noi stessi.

Questa è la cosa che in assoluto che più mi diverte e spererei proprio nel prossimo disco di riuscire a inserirla, perché è l’aspetto che più mi interessa in Saluti da Saturno.

 

L’altra questione sulla strumentazione è la seguente. Considerando la rarità dei tuoi strumenti, e la fatica che hai fatto a procurarti alcuni di questi esemplati, ti chiedo se abbiate paura che subiscano dei danni, nel traporto e per i concerti.

Degli strumenti che considero fondamentali, che sono mellotron, optigan e celesta, ne ho in più esemplari. Da questo tour che è appena iniziato – siamo alla terza, quarta data – pur non volendo, ha portato una modifica.

Io sono abbastanza estremista: o bianco o nero. Poi mi sono trovato a usare questi strumenti, registrarli e a fare il tentativo di evitare così di portarli sempre in giro.
Infatti è successo che questi strumenti mi abbandonassero e non riuscissi a finire il concerto: mi inventato sketch, situazioni ironiche, e molte persone pensavano che fossero siparietti preparati; invece era tutto improvvisato per nascondere il fatto che lo strumento non funzionasse più.

Quindi per il Valdazze Tour mi sto attrezzando, e sto finendo adesso questa messa a punto. A ciascun strumento sto facendo un lavoro ad hoc per poterlo risuonare in maniera virtuale. Una cosa che non amo, e non amo neppure dire, ma mi sono “venduto” alla tecnologia (la sofferenza nel pronunciare questa frase è difficile da comunicare, ndr). Perché può succedere che i vecchi strumenti, portati sul palco, si rovinano e basta. Sono strumenti che hanno una vita, una durata.

 

La ricercatezza della strumentazione di cui vi siete serviti per questo disco, e le atmosfere che riescono a creare, focalizzano l’attenzione sulla parte musicale del disco, suggerendo che questa abbia molta importanza. Eppure i testi non sembrano sfigurare.
Che pesi hanno avuto queste due componenti – musica e testi – nella stesura del disco?

Di musica potrei parlarti per giorni.

Sui testi invece faccio molta fatica.
La situazione è questa. Non ho grandi basi, grandi storie da raccontare: mi emoziono molto per le cose semplici. E le cose semplici possono sembrare banali, o anche molto difficili da fare: dipende dall’occhio di chi guarda. Io personalmente sono sempre andato alla ricerca della semplicità, e nei testi lo faccio per necessità. Mi baso su piccoli frammenti, e spesso e volentieri ci costruisco una storia. Che può essere vera, come inventata. Posso partire da un’altalena che sta affondando nel mare e andare da tutt’altra parte. Ecco, un aspetto fondamentale cui facevo riferimento anche prima è l’improvvisazione: l’essere sempre vittima dell’imprevisto. Nei testi invece mi piace mettere il sogno, un po’ alla Fellini.

 

Chiudo con una domanda didascalica: perché proprio Saluti da Saturno come nome del progetto, e perché Flexible Orchestra da Pianobar Futuristico Elettromeccanico come nome del collettivo?

Io volevo tornare da dove ero partito.

Ed ero partito suonando in un’orchestra a Cesenatico, in una balera di liscio. Poi ho fatto tanti anni jazz, da batterista, e dato che come dicevo prima, a me piace essere qui e essere anche per aria, volevo un ritorno alla base. Però la base non poteva essere proprio Cesenatico. Ma Cesenatico vista dall’alto, da una condizione di sogno. Come da una cartolina. E l’idea di unire questi discorsi con la cartolina venne a Roberto Greggi, il cantante che dà voce al disco precedente e a due pezzi in questo nuovo . Così nacque “Saluti da… Saturno”, ed era proprio ciò di cui avevo bisogno. Poi Saturno comunica malinconia, ed era una cosa che si collegava al concetto in tanti modi. Era l’ideale.

L’orchestra flexible è legata al disco che abbiam fatto prima.
Noi abbiamo creato una base, che è un trio: io, Marcello Monduzzi alla chitarra e Bruno Orioli alla voce. Però succede sempre che non siamo in trio, e il concetto di flexible sta proprio qui. L’altro giorno a Bologna c’era Grazia Verasani, una scrittrice molto brava, che ha fatto con noi uno spettacolo – ci intervistava, parlava, cantava. Oppure sabato a Torino c’era un amico attore, Roberto Alpi, che recitava la parte del tenore spagnolo. Il tutto assolutamente improvvisato. Quindi l’orchestra è flexible perché c’è sempre qualcosa di modellabile, che ci prende in contropiede.

Pianobar perché mi stanno antipatiche le “rockstar” tra virgolette: musicisti che diventano divi con un disco e mezzo. Mi piace mantenere un po’ di passo felpato. E il pianobar mi dà l’idea dei concerti senza transenne, così che si possa dare la mano a chi ti ascolta. Questo era il concetto che mi interessava di più: rendere partecipe anche l’ascoltatore.

Futuristico è un po’ il discorso che facevamo prima: Cesenatico è il punto di partenza e di arrivo, ma visto da Saturno; il sogno, e il dare il senso di imprevedibile. Cosa che mi riesce più dal vivo che su disco, ma spero che presto la parte futurista riesca ad atterrare in maniera più definitiva anche nel disco.
E l’elettromeccanico è legato agli strumenti elettromeccanici che usiamo, e che a volte non ci permettono di arrivare alla fine del concerto.

 

Divisi tra un senso di precarietà e uno stato di gioia, attendiamo l’imprevedibile concerto.
Grazie come sempre a Francesco Lippolis per il supporto tecnico, tra mixer e cavi vari.

2 Comments

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  1. a.

    brava Ilaria, un’altra bella intervista!
    se vuoi l’unico, piccolo, neo è l’inizio un po’ troppo manieristico, ma son inezie…
    complimenti.
    a.

    • Ilaria Virgili

      Grazie Andrea!
      Concordo sull’introduzione, e mi dai così lo spunto per sottolineare quella che secondo me è la criticità dell’articolo, che può avere vari risvolti: la (eccessiva) lunghezza.
      Mi sono resa conto durante la stesura stessa che avrei pubblicato un pezzo troppo lungo, sia nella premessa, che nella parte delle domande.
      Però questo “non controllo” è stato consapevole: ho scelto di dilungarmi. L’emotività legata al ricordo ha prevalso sul rigore, e la lunghezza rispecchia bene la conversazione.
      Mentre il maniersimo no… perciò la prossima volta cercherò di essere più “fedele”.

      Grazie ancora e un saluto!

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