Il giudice



Domandate cosa sia necessario per esser buoni giudici? Ah domanda facile questa, quanto difficile è il riuscirvi.

Ad un giudice, è chiaro, si chiedono qualità sovrannaturali nell’esercitare la professione, nella misura in cui egli non dovrebbe essere un uomo per essere davvero adeguato al suo compito. Il diritto è da sempre il solo espediente per costringere il giudice a peccare il meno possibile, in questo senso. Ma quanto poco possono in fondo le leggi lo scoprirono facilmente tutti gli uomini di qualche lungimiranza, cercando anche un poco di indagare gli eventi. Eppure oggi, per una strana fantasia dei nostri tempi la legalità appare alla portata di tutti, tanto che i più hanno sempre qualche diritto nuovo da reclamare per annoverarli tra i propri trofei. Beati i nostri tempi, in cui tutti così facilmente hanno accesso nell’intelletto a questa strana entità, che è il diritto! Poiché, anche se i più l’hanno sempre sulla bocca, questa strana parola non è per nulla evidente, nella sua essenza.

Questo non vi convince? Avanti allora, uomini della piazza, rispondetemi con sincerità e ditemi se non è strano che un uomo sia investito dell’autorità che spetterebbe solo agli dèi, di emettere sentenze e condannare persone alla giusta pena! Poiché, dannazione, questa giustizia umana finisce per essere tanto oscura e confusa, che ogni sua formulazione appare un’arbitraria pretesa, a chi sa discernere il desiderio dalla giustizia. E che cos’è poi questo diritto universale all’acqua? Chi se ne fa portatore? A chi spetta? Se domanderete ad un giurista se è ancora vigente quel diritto solido e antico per colui che trionfa, di imporre la sua legge allo sconfitto, egli vi dirà che tale usanza appartiene ad epoche buie. Oggi però, in tempi luminosi, vige quest’altra legge, che certi uomini a nome di molti popoli (nei loro propositi, di tutti) si occupino di discutere quali diritti universali siano giusti, e secondo quali criteri. Finisce così che la stessa corte che giudica prescrive i diritti. Ma quella corte, dove trova il fondamento su cui costruire si raffinate formalizzazioni? Essa è forse autonoma? Che sciocchezza…

Eppure, in questo ambiguo tripudio di diritto abbiamo tanto da lavorare, e lavorare con costanza. La vasta scala, le molte pagine. Direbbe il drammaturgo: le scartoffie. Ma sì, sudate scartoffie! Di linguaggio oscuro a tutti tranne agli esperti. E difatti è questo il nostro solo privilegio, il solo che può sopravvivere a quei pensatori loquaci e a quei manifestanti irosi, al tempo come alle mode. Di questo abbiamo bisogno, perché i nomi distinguano dove noi talvolta non arriviamo. Non ci priverete del linguaggio oscuro, che abbiamo estorto a nostro tempo ad altri – loro, i sacerdoti! Poiché tutto venne da là.

 

[L’interpretazione della storia degli eventi grandi e piccoli infatti si incrocia ad un bivio. Se ciò che è stato è stato di per sé, anche se ora è passato e mutato grandemente, o se invece quello che fu non era altro che ciò che è, e ciò che sarà, così che la verità sta nel futuro, di cui il passato non è che una forma incompleta.]

 

In fin dei conti l’opinione comune muta in fretta: solo quarant’anni fa i molti che disprezzavano lo stato borghese avevano in odio l’ordine pubblico e la legalità, e uno di costoro cantava di un giudice nano, rancoroso e pieno di sé. Oggi il vento tira a favore, purché ad esso ci si conformi, e vi è anche un certo prestigio mondano nella nostra professione: si pubblicano libri, si osanna la costituzione e si svolgono simili attività apologetiche che hanno poco a che fare con la professione. Ma queste cose sono superficiali, e cambiano facilmente con il vento dei mutamenti a cui le circostanze sottopongono lo stato e i suoi cittadini: un fuscello esile è l’opinione pubblica, perciò svolazza ovunque viene sospinta.

Io perciò, per conto mio, mi spiace, non rilascerò interviste né farò comizi, poiché credo ancora che vi siano ruoli, e che ad alcuni spetti anche quello di tacere, se non quando comanda la legge.

Socrate: Prova, allora, a metterla così. Poniamo che mentre siamo lì lì per fuggire di qui (o comunque vogliamo chiamare questa cosa) venissero le leggi e la città tutta, si piazzassero davanti a noi e ci chiedessero: “Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?… O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?”. Cosa rispondere, o Critone, a queste o simili domande? Certo, ci sarebbe molto da dire (più di tutti ci riuscirebbe un retore) in difesa della legge che violerei, che impone che le sentenze pronunciate abbiano vigore. Preferiremo forse dare loro una risposta del tipo “la città ci ha fatto un’ingiustizia, emettendo una sentenza scorretta”? Diremo questo, o che altro?

 
Critone: Ma questo, Socrate, per Zeus!

 
Socrate: Ma supponiamo che le leggi dicessero: “Ma Socrate, è questo che rientrava nei nostri accordi, o non piuttosto l’impegno di rispettare i giudizi della città?” Se a queste parole facessimo mostra di meravigliarci, potrebbero aggiungere: “Invece di meravigliarti di quello che diciamo, Socrate, rispondi (sei ben abituato a far uso di domanda e risposta). Su, hai qualcosa da rimproverarci a noi e alla città, che ti dai da fare per la nostra rovina? Non ti abbiamo dato noi la vita, tanto per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e ti ha generato? Di’ un po’, a quelle leggi fra noi che governano i matrimoni, hai da fare qualche rimprovero?”. “Nessuno” direi io. “Ce l’hai allora con quelle che regolano la crescita e l’educazione dei figli, in cui sei stato cresciuto anche tu? Non erano giuste le direttive che la legislazione in materia dava a tuo padre, prescrivendogli di educarti nella musica e nella ginnastica?” “Ma sì” direi ancora “E allora, dopo essere stato generato, allevato ed educato, avresti il coraggio di negare – tanto per cominciare – di essere creatura e schiavo nostro, tu come pure i tuoi antenati? Se è così, poi, credi che tu e noi abbiamo eguali diritti, e che se noi ti facciamo qualcosa hai il diritto di fare altrettanto? Non eri su un piano di parità rispetto a tuo padre, o a un padrone se ne avevi uno, sì da poter ricambiare qualsiasi trattamento, rispondendo alle offese con le offese, alle percosse con le percosse e così via. E te lo permetteresti ora rispetto alla patria e alle leggi, al punto che se riteniamo giusto cercare di ucciderti ti metterai a fare altrettanto con noi, per quanto ti riesce, e sosterrai di agire con ciò giustamente, e saresti uno che genuinamente si cura della virtù? O con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti gli antenati, e più sacra, e più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dèi e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre? E che l’alternativa è fra persuaderla o eseguire i suoi ordini, soffrendo in silenzio se ci impone di soffrire, si tratti di essere battuti o imprigionati, o anche di essere feriti o uccisi se ci manda in guerra; e bisogna farlo – ed è giusto così – senza arrendersi né ritirarsi né lasciare la propria posizione, perché sia in guerra che in tribunale, dappertutto va fatto ciò che la città, la patria comanda a meno di non riuscire a persuaderla di dove sta la giustizia?… Se è un’empietà usar violenza contro il padre e la madre, tanto più lo sarà contro la patria.” Cosa potremo replicare a questo discorso, Critone? Che le leggi dicono la verità, o no?

5 Comments

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  1. Patrick Wild

    Argomento piuttosto ostico e dal quale sarebbe possibile far nascere altrettante innumerevoli discussioni.

    Mi permetto dunque di precisare giusto un punto del tema proposto: è vero, ad un certo punto l’opinione pubblica nei riguardi dei giudici – e non necessariamente della giustizia – è cambiata diametralmente rispetto ai decenni passati, come testimonia d’altronde il già citato De Andrè/Brassens.

    In realtà se ne è parlato e scritto a lungo, l’ultimo è stato Giancarlo Caselli nel suo libro. Per capirne bene i passaggi è utile tornare alle trasformazioni sociali che sconvolsero l’Italia di ormai 40 anni fa.
    C’è stato un tempo in cui l’accesso alla magistratura era ampiamente limitato ad un preciso percorso d’istruzione, al quale era possibile accedere a sua volta solo per coloro che appartenevano alle classi medio-alte. C’è stato il fascismo, con tutto ciò che ne consegue (basti pensare al famoso “armadio della vergogna”). C’era un’interpretazione della legge incline a strutturare l’essenza stessa della magistratura come “bocca della legge”.

    E’ evidente che in un simile contesto, l’immagine popolare del giudice rifletteva la realtà dei fatti: una magistratura tutt’altro che rappresentante del “terzo potere” od indipendente e autonoma dalla politica. Come poteva essere altrimenti, dal momento che i loro esponenti provenivano addirittura dalle stesse famiglie?

    La situazione muta, giustamente, proprio in quegli anni. Riforma e accesso alla carriera di innumerevoli giovini con ben altra consapevolezza e sensibilità.

    Ci sarebbe poi da fare un ulteriore passaggio, sul periodo stragista, 1992, Tangentopoli, le leggi ad personam e quant’altro, per potere offrire altri interessanti elementi al dibattito. Ma avrei la sensazione di allargarmi troppo.

    A presto!

  2. Lorenzo

    Vero è che le cose cambiano. In effetti essere giudici oggi ed esserlo allora, pur nella mia poca competenza sull’evoluzione della giurisdizione italiana, immagino sia notevolmente diverso, in aggiunta all’aspetto propriamente sociale di cui parli. Io mi soffermavo semplicemente sul cambio di registro che si può notare dopo gli eventi che hai elencato alla fine (tra gli anni ’90 e gli anni 2000), una serie di avvenimenti significativi, senz’altro, che hanno influenzato notevolmente la storia italiana e che hanno cambiato la considerazione generale che si può avere dei giudici. Inoltre, anche se non le conosco, credo vi siano state vicende per così dire “politiche” all’interno della magistratura stessa, dagli anni ’70 ad oggi.

    Quindi è vero senz’altro che le differenze ci sono, ma anche le somiglianze, in fin dei conti rimangono e nei suoi testi, a me sembra, De Andrè (e anche i molti che tendevano a vedere nel giudice lo strumento del potere repressivo) sottolinei come sia di per sé sbagliato/odioso essere l’uomo che con le spalle parate dallo stato può emettere sentenze sulla pelle di altri (in effetti soprattutto di poveri e sfruttati, sembra intendere). Una vicenda simile e parallela forse l’hanno vissuta le forze dell’ordine.

    Quello che sembra a me è che questo modo di procedere, in fondo, per quanto le cose siano state modificate, sia connaturato alla forma giuridica, anche a quella odierna, ovviamente: ma l’aspetto passa in secondo piano o in risalto a seconda dei vari momenti, cioè delle circostanze immediate, per importanti che siano. Siccome tu studi giurisprudenza, se non ricordo male, mi spiace di eventuali imprecisioni, poiché come si noterà non sono molto preparato su aspetti giuridici specifici e sulla loro storia. Ho cercato di parlare di alcuni aspetti interessanti ma assai generali, come faccio di solito scegliendo personaggi del genere, e il riferimento era per sottolineare come storicamente (in Italia, ma non credo solo qui) il giudice sia una professione ambigua, vista in modi molto diversi e per diverse ragioni.

    A presto!

  3. Patrick Wild

    Ricordi benissimo ed è molto interessante il tema proposto! Come dici tu, quella del giudice è una professione ambigua, davvero. E’ difficile cogliere tutte le sfaccettature di queste professioni, poiché è evidente che riflette la stessa complessità della vita fuori dai tribunali e dalle aule di giustizia. Verosimilmente potremmo affermare che a volte capita che quanto accade fuori condizioni ciò che avviene al loro interno, ma è vero anche l’opposto.

    Mi spiego meglio, facendo degli esempi concreti:
    come ricordavo nel commento precedente, il cambiamento interno alla magistratura è dovuto ad una serie di concause, ma il cambio di rotta di inizio anni ’70 in poi è prima di tutto dovuto ad elementi esterni, per così dire.

    Milano e Palermo, Tangentopoli e il Pool antimafia: la vicenda è interessante, perché ad andare a leggere le cronache dell’epoca si può intuirne l’iniziale perplessità e timore da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’operato dei giudici. A poco a poco questa decide di offrire solidarietà alle indagini delle due procure, esortando i magistrati a sfornare centinaia di avvisi di garanzia e a fare accertamenti bancari. E’ interessante perché si coglie anche qui un mutamento che non è prodotto solo e in gran parte fuori, ma in seno alla giustizia, mediante gli attori principali.

    E’ certamente ambigua altresì per un dato “storico” e anche qui mi piacerebbe offrire un breve spaccato di questa evoluzione, visto che riguarda prettamente il rapporto magistratura-politica-società italiana. In breve, l’Italia della prima Repubblica – perlomeno fino agli anni topici di cui abbiamo parlato – ha goduto della presenza di due partiti di massa (gli unici, esperienza mai più ripetuta), Dc e Pci, che han sostanzialmente inglobato ogni aspetto della vita del cittadino italiano. Cosa c’entra con i giudici, diresti giustamente tu? Bene, il fatto è che proprio questa presenza totalitaria ha “filtrato” e mediato per lungo tempo controversie interne, liti e altra materia che normalmente sarebbe stata di competenza della magistratura. Il risultato è che con la disgregazione di questi due partiti, il peso sulla bilancia si è spostato necessariamente sul piatto del giudice, il quale si è trovato a decidere anche per un’ampia gamma di casi da cui in precedenza sarebbe stato per così dire esentato.

    Ovviamente la sto facendo in termini molto semplici, la questione come comprensibile è molto più complessa: volevo solo sottolineare come sia interessante constatare l’odierna figura del giudice quale figura ambigua e complessa. Un giudice che non deve solo decidere secondo gli strumenti del diritto, ma deve spesso e malvolentieri improvvisarsi di volta in volta psicologo, medico, tecnico etc.. ormai si richiede una specializzazione estrema, probabilmente evasa dai più per logiche e scontate ragioni.

    E c’è sicuramente altro da dire, ma che al momento non mi sovviene davvero 😉

  4. Lorenzo

    Esempi significativi! Sono molto interessanti le considerazioni storiche di questo tipo per chi ha la nostra età (anche se tu hai qualche anno in più di me) e ha “vissuto” scientemente per primi gli eventi posteriori a tangentopoli (io personalmente mi ricordo di aver iniziato a conoscere qualche nome e qualche vicenda italiana nel periodo attorno alla prima elezione a presidente del consiglio di Prodi) e non si immagina se non vagamente ciò che era prima. Per quanto riguarda la specializzazione richiesta, immagino, e da quel poco che posso intenderne, sembra un mestiere per cui bisogna avere una certa tempra non comune, anche nel tempo della società di massa!

    Scusami la domanda personale (magari si può parlare di questo in privata sede), ma tu sei orientato a fare il giudice o qualcosa di diverso nell’ambito giuridico (o altro ancora)?

  5. Patrick Wild

    Chiedo scusa, leggo solo ora la risposta.

    Credo anche io che una buona conoscenza storico-politica di quegli anni sia fondamentale per capire le dinamiche avvenute successivamente. Proprio in questi giorni stiamo assistendo alla decapitazione del primo partito nato tra la prima e la seconda Repubblica…

    Riguardo all’ultima domanda..ahi, me lo stanno chiedendo in molti ultimamente. Se devo essere sincero, ancora non sono del tutto sicuro, benché qualche idea in merito me la sia fatta 😉

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