Due parole sulle parole


Alla luce di questa fine di febbraio mi sorge il desiderio di spendere due parole su un argomento di cui, sempre più spesso, mi capita di sentire parlare: la degenerazione della lingua.

Tutti noi, andando a scuola, subiamo con alterne vicende l’insegnamento della grammatica, dell’analisi logica, di quella del periodo. Ci viene detto che i verbi si coniugano in un certo modo, le frasi si costruiscono in una certa maniera e così via. Ma, ascoltando quel che viene detto in giro, letteralmente intendo, ci accorgiamo che le cose, soprattutto nel parlato, vanno in modo diverso.

Ed ecco sorgere i difensori della bella lingua, pronti a condannare il povero sig. Nessuno, a stracciarsi le vesti gridando “dove andremo a finire?” e ricordando con la dolcezza che solo il passato e la scarsa, (pascoliana?) memoria può avere, di come un tempo si parlasse la lingua degli Dei mentre oggi…ahimè, siamo tutti condannati a canagliare con le parole.

Che i politici, oggi, abbiamo rinunciato al congiuntivo, preferendo l’indicativo perché modo dell’oggettività per rafforzare le proprie deboli opinioni, non c’è alcun dubbio; ma quella è colpa, io credo, di certi consulenti. Sulla natura del linguaggio parlato dovremmo invece porci con l’onestà del ricercatore e capire, una volta per tutte, che il linguaggio, di per sé, non migliora né degenera, ma cambia.

Esisteranno sempre diversi registri e toni, adatti ai diversi contesti ed è proprio questa la ricchezza del linguaggio; e se proprio dobbiamo essere sinceri, nei bei tempi andati, visto che la scolarizzazione era più scarsa, si parlava “peggio”, almeno l’italiano.

Ma quale italiano? Negli studi di linguistica non si parla di “italiano”, o di “francese” e così via, ma di “italiani” regionali. Perché? Perché una lingua non è mai univoca, certo, esiste la dizione, ma è pura convenzione. Studiare un linguaggio infatti, almeno dopo la 5 elementare, è un atto descrittivo, non normativo. Troppo spesso sentiamo esimi studiosi afflitti dal vizietto di piegare i fatti alla teoria, e non viceversa.

Dunque non preoccupiamoci troppo, il nostro parlare quotidiano va benissimo, certo, non è quello di ieri, abbiamo parole nuove, nuovi concetti, ma questo è ciò che permette di farci restare legati alla realtà; immaginate di parlare come un uomo della fine del 1800: la mattina andreste al lavoro con la vostra “carrozza automobile” o prendendo “l’omnibus”? A parte gli scherzi, esistono delle regole, che servono perché tutti possano capirsi, ma sarebbe meglio fare più attenzione all’arte, alla poesia, al teatro, imparare da ciò che è bello, piuttosto che “normare” l’uomo della strada, di cui tutti, a turno, vestiamo i panni, su un fenomeno che per quanto possiamo sforzarci, non possiamo controllare. Per quel che riguarda le parole straniere: se le usiamo, tanto straniere non sono; e non per questo siamo stretti da un assedio culturale che farà perdere la nostra identità. Pensare alle culture come divise dai compartimenti stagni di una petroliera è un ottimo modo per diventare intolleranti, sentirsi minacciati dalle parole “straniere” è indice di poca fiducia nella propria storia più che di orgoglio nazionale.

Era opinione degli antropologi ottocenteschi che le società “primitive” fossero chiuse nei loro particolarismi culturali, ma alla prova dei fatti non è, né è mai stato così. Il linguaggio esisteva prima di noi, ed esisterà anche dopo, noi siamo solo dei Caronte che lo traghettano, a volte strapazzandolo, lungo il fiume della nostra vita.

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