C’est la vie!


Mi chiede cosa penso della vita.

Rispondo con un “niente”.

Tu non pensi alla vita? Non pensi sia una cosa meravigliosa? Un miracolo?

Non riesce proprio a smettere di incalzare. È fastidioso.

Affermo che non mi interessa. Qualsiasi cosa pensassi  riguardo la vita questa non cambierebbe per me. La sua sostanza resta la stessa ancora e ancora, fino alla fine dei secoli.

“Ma comunque sia, non posso credere che tu non abbia mai provato a dare un significato, una definizione alla vita.”

Sì, è decisamente fastidioso quando mi fa di queste uscite.

Infatti non ho mai detto questo. Ci ho provato qualche anno fa. E ho capito che la vita, di per se, è un agglomerato di emozioni e situazioni senza significato ed equilibrio.

Questo è quello che gli dico.

Mi domanda come diavolo avessi fatto ad arrivare a conclusioni tanto assurde. E lo accontentai.

Reparto di neonatologia. Febbraio del 1959. Mia madre era sul punto di mettere al mondo un altro essere umano che avrei dovuto definire, di lì in poi, “fratello” o “sorella”. A me non sembrava nulla di straordinario. Anche io avevo di fatto subito lo stesso trattamento otto anni prima. Ero nato. Pensavo fosse una fregatura, nascere. Tutti all’inizio festeggiano, sono pazzamente esaltati, ognuno porge il proprio dono nelle mani dei genitori o dei nonni del nascituro. Tutti sono felici. Una nuova vita! Una nuova anima! Una nuova mente!

Gli entusiasmi, però, vanno inesorabilmente in calando mano a mano che i piedi si allungano, i denti cadono. Si finisce per ricordare quel “meraviglioso miracolo della natura” una volta all’anno, se va bene. Le fiere dell’ipocrisia.  I compleanni. Solo per ventiquattro misere ore all’anno.

Questo è ciò a cui pensavo in quella verdognola sala d’aspetto. A fianco a me si sudava, si rideva, si pregava.

Chiesi alla zia il permesso di alzarmi e fare un giro. Mi addentrai nelle varie stanze, di nascosto.

Vidi una donna che urlava e batteva le mani, rideva. Le chiesi cosa stesse facendo e il motivo di tale comportamento.

“Ieri sera sono diventata mamma per la prima volta! Che gioia! Una nuova vita, mio figlio!”

La ringraziai per la risposta e me andai.

Ne vidi un’altra, poco più avanti, che stava piangendo.

“Cosa succede?Perché ti disperi?”

“Ieri sera ho dato alla luce il mio bambino, ma era troppo prematuro, è nato morto. È la cosa peggiore che possa accadere ad una madre, tua mamma è una donna fortunata.”

Proseguii anche io con le lacrime agli occhi e vidi una signora che stava fissando la finestra, immobile e pensierosa. Quando la interpellai mi disse che aveva fatto nascere il suo quinto figlio e suo marito, essendo un operaio, non sarebbe stato in grado di sfamare tutte quelle bocche, quindi stava prendendo in considerazione l’ipotesi di darlo in adozione ad una sua cugina, ormai attempata e senza prole.

Sebbene un po’ confuso da tutte queste risposte diverse, continuai a gironzolare per il reparto.

Conobbi un’adolescente preoccupata per la reazione dei genitori alla scoperta della nascita di un nipotino inaspettato senza avere la possibilità di conoscere il padre, ovvero un ragazzo scapestrato.

Mi stupii alla vista di una donna di quasi cinquant’anni con il suo pargolo in braccio, nella camera accanto. In quel momento capii che papà aveva ragione quando sospirava dicendo “Le donne sono le creature più complicate del mondo”: tutte mi avevano dato risposte diverse alla stessa domanda!

Ma cos’era, in fin dei conti, la Vita? Qual era veramente il significato di una nascita?

Alla fine di questo singolare tour, mi intrattenni con una donna che, contemporaneamente, stava piangendo e battendo le mani, ogni tanto effondeva un sorriso che illuminava la stanza.

“Perché batti le mani?”

“Ieri è nato il mio bambino, è il secondo.”

“Per questo sorridi ogni tanto?”

“Sì, è nato in salute ed è bellissimo.”

“E allora perché piangi?”

 

Silenzio. Poi la dilaniante verità:

 

“Perché sono consapevole che, insieme alla  sua Vita, mettendolo al mondo ho anche decretato la sua Fine.

7 Comments

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  1. Michi

    Molto profondo. Fa riflettere. Sopratutto l’ultima frase mi ricorda una canzone “Born to die”.
    Molto bella anche l’antitesi fra pianto e riso.

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