Intervista a Samuel Katarro


Qualcuno l’ha definito seminormale.
Altri giurano di averlo visto fare un patto col diavolo, o ancora meglio, con Robert Johnson.
Addirittura c’è chi ha visto aleggiare spettri angosciosi durante l’ascolto di Beach Party e The Halfduck Mystery, i suoi due dischi.

Alberto Mariotti raccoglie divertito queste istantanee e le cuce insieme per farne un ritratto di Samuel Katarro, ossia se stesso. Per quanto cupe e inquietanti, queste descrizioni forse riescono a definire meglio di etichette limitanti quali blues e psichedelia la musica del giovane artista toscano.

La stessa musica che ha presentato venerdì in piazza Borghesi per la serata inaugurale del SI Fest 2011.

A distanza di un anno e mezzo dalla sua prima apparizione a Savignano, Samuel Katarro è tornato sulle rive del Rubicone accompagnato dalla Tragic Band, costituita da Francesco D’Elia (violino, chitarra, cori) e Simone Vassallo (batteria, percussioni), per dar vita all’appuntamento più interessante tra gli eventi collaterali della tre giorni di festival di fotografia.

Dopo il trascinante concerto, ricco di stimoli e intriganti atmosfere in cui perdersi, abbiamo approfittato della sua pazienza per fargli qualche domanda.

Perché hai deciso di entrare nel mondo della musica con uno pseudonimo?

Forse per lo spirito autolesionista tipico della giovane età. È un nome che avevo in mente da un sacco di tempo e scelsi per scherzo quando partecipai a un concorso locale. Poi mi è rimasto addosso, quindi l’ho tenuto.
Ma non è sicuro che lo tenga per sempre.

Studi giornalismo e fai il musicista: come riesci a conciliare le due attività? Come ti vedi tra qualche anno?

Per conciliare i due impegni basta trascurare lo studio: il segreto è quello. Per questo potrei laurearmi tra sei mesi come tra un anno, ancora non so. Comunque è più logico e più facile per me continuare a suonare che intraprendere la carriera giornalistica. In particolare in Italia, dove il percorso lungo e difficile, le fasi sono tante e a 26 anni non me la sento. Ho cominciato l’università 6 anni fa, ed ero arrivato a metà quando il progetto Samuel Katarro è partito, ha preso campo e a quel punto, visto che c’ero, mi sono detto: «la prenderò con un po’ più di calma, però finisco».

In realtà ancora non so cosa farò da grande, però vorrei continuare a suonare, perché ritengo sia la cosa che mi riesca meglio. Sono specializzato in quello ed è giusto che dia alla gente un servizio che so offrire bene.

Nella descrizione che si trova sulla tua pagina facebook si legge che la tua musica è la “la definizione di un mondo in cui il riscatto e la redenzione non sono previsti né attesi, semplicemente perché la realtà circostante ha deciso di poter farne a meno”. Una visione un po’ pessimistica. Davvero ti ci ritrovi?

Si tratta di cose che altri hanno scritto sulla mia musica. Io le ho raccolte, perché in effetti mi ci ritrovo.
In realtà come persona sono ottimista, tenace, non mi abbatto in fretta, cerco di trovare prospettive a qualunque difficoltà, però l’atmosfera che si respira a livello globale non è certo delle migliori. Siamo in un periodo di declino, non di risalita, e se si è un po’ sensibili lo si percepisce anche senza affondarci.
Questo quando si fa musica, o qualcosa con cui si esprimono sensazioni, ha una certa influenza. Chiaramente la storia dell’umanità è formata da cicli, salite e discese. Ma questo periodo mi sembra più caratterizzato dal segno meno.

A novembre dello scorso anno uscì la compilation “La leva cantautorale degli anni zero”, nella quale anche tu figuri con la canzone “I was the Musonator”. Vedere la tua presenza mi stupì molto, perché personalmente non ti collego alla scena cantautorale. È una sensazione corretta?

Sì, non mi sono mai sentito un cantautore. Io ho sempre suonato in band, e l’ avere intrapreso la carriera solista – che lo è in parte, perché la maggior parte dei concerti li facciamo in tre – è stata più una necessità, perché le esperienze passate con gli altri tre gruppi, in cui ero l’autore dei pezzi ma il lavoro era collettivo, sono fallite. Era un momento in cui non avevo voglia di suonare con altre persone, perché non ero più sicuro di saperle gestire.  E non sono sicuro di saperlo fare ancora.

Ma essendo abituato a suonare in un certo modo, mi è venuto naturale riportare la stessa attitudine anche con la chitarra acustica e la voce, e appena ho potuto ho allargato le sonorità e gli strumenti, grazie al supporto di Francesco (Francesco D’Elia, chitarra e violino, ndr) e Simone (Simone Vassallo batteria e percussioni, ndr) con i quali mi trovo molto bene.

Quindi l’essere associato alla scena cantautorale è capitato per caso e sto cercando di fuggirne. Ma non  tanto per una questione di suoni, quanto più per un fatto di attitudine e priorità. Per esempio, non do precedenza alle parole,  altrimenti scriverei in italiano. E neppure do importanza al suono, alla ricerca di bei suoni che colpiscano sui quali costruire il pezzo.
Mi interessa l’atmosfera, l’armonia, la chimica del suono. Non il suono bello in se stesso.

Quando andai alla presentazione della compilation allo scorso MEI, raccolsi un po’ di impressioni da parte degli artisti coinvolti sull’effettivo raggiungimento delle finalità da parte del progetto. Ci chiedevamo se la compilation sarebbe riuscita davvero valorizzare la nuova musica cantautorale italiana. Per quanto riguarda la tua esperienza, la compilation ha generato più interesse nei tuoi confronti?

Sì. Qualche giornalista che non aveva sentito parlare di me ha scoperto il nome e si è interessato al progetto. Qualcuno ha apprezzato, qualcuno no. Ma a livello di visibilità qualcosa è servito.
Rimane il fatto che sento di non appartenere alla scena della maggior parte degli artisti coinvolti.

“Beach Party” è titolo del tuo primo disco, che però pare non avere alcuna attinenza col contenuto dell’album e le atmosfere che crea. Perché l’hai scelto ?

L’ho scelto proprio perché non c’entra niente. È volutamente antitetico.

Quando ho registrato e mixato il disco personalmente non stavo benissimo. Abbiamo lavorato nello studio di Marco Fasolo (produttore di “Beach Party”, ndr) dei Jennifer Gentle in una vecchia casa a Cavarzere: un posto assurdo. Era inverno, c’era nebbia ovunque e non uscivamo mai di casa. È stato bellissimo lavorare con Marco, ma la situazione era surreale: sembrava di essere in un film di Buñuel, “L’angelo sterminatore“. Stavo per impazzire.
Quindi i fantasmi ci sono perché abbiamo registrato in una casa di fantasmi di fatto.
E alla fine “Beach Party” mi sembrava che non c’entrasse niente, e per questo l’ho scelto.
Mi piace cercare questo tipo di paradossi. Mi piace creare mondi possibili.

Pensate di uscire dai confini del Belpaese e suonare anche all’estero?

È da tanto che ci pensiamo . Forse il prossimo anno abbiamo occasione di suonare in Germania in autunno.
Per adesso vorrei solo tornare a casa e risuonare un po’ di pezzi nuovi che abbiamo iniziato perché non vorremmo più fare il solito set che proponiamo da un anno e mezzo (da quando è uscito “The halfduck mystery”, l’ultimo disco, ndr). Non vediamo l’ora di impegnarci in qualcosa di nuovo.

E con questo orientamento futuro ringraziamo di cuore Samuel Katarro, la sua Tragic Band e gli auguriamo tanta buona e nuova musica.
Ne abbiamo bisogno tutti.

Un ringraziamento speciale ad Andrea per l’impegno e la smisurata passione.

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